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giovedì 12 gennaio 2017

 


in località “Forniello” in agro di Raviscanina alle ore 17 del 26 giugno del 1954

LA MIETITURA DEL GRANO INSANGUINATA DA UN DUPLICE DELITTO






 



L’agricoltore Pietro Manera  uccise il trattorista  Vincenzo Ricciardi e ferì gravemente il suo vicino Santo Albanese

Il duplice delitto era stato consumato perché  il trattorista  aveva promesso di mietere il grano quel giorno invece si era recato a mietere il grano dell’Albanese con cui il Manera non era da tempo in buoni rapporti.



Sant’Angelo d’Alife – Il 27 giugno del 1954 i carabinieri di Ailano, furono informati che poco dopo le ore 17 in contrada “Forniello” di Raviscanina era stato consumato un omicidio e immediatamente si portavano in tale località e precisamente sul fondo condotto a mezzadria di tale Sante Albanese. Quivi constatavano che tal Vincenzo Ricciardi, già cadavere ed insanguinato – specie al di sotto del braccio destro – era riverso sul sedile di un trattore che al traino di una mietitrice era fermo poco lontano dalla casa colonica dell’Albanese. Dalle dichiarazioni dei presenti riuscivano prontamente ad assodare che tal Pietro Manera, abitante  in una masseria distante circa 300 metri da quella dell’Albanese, aveva con due colpi di fucile da caccia, esplosi una di seguito all’altro, colpito per primo l’Albanese,  che trovavasi in piedi sulla mietitrice, poi il Ricciardi che era alla guida del trattore. Che il duplice delitto era stato consumato perché l’operaio aveva promesso di mietere il grano alle ore 14 di quel giorno invece si era recato a mietere il grano dell’Albanese con cui il Manera non era da tempo in buoni rapporti.   E subito gli inquirenti si chiesero: “Può una simile ragione essere causa di un duplice delitto?”. Purtroppo era vero. Infatti il Manera costituitosi nella serata presso la locale caserma dei carabinieri assumeva – senza alcun pentimento – di aver commesso il delitto, accecato dall’ira perché pur essendo stato per oltre quattro giorni dal proprietario della mietitrice portato in giro per la mietitura dei suoi 14 tomoli, (ogni tomolo è circa 3500 mq.), di grano di cui perciò aveva temuto la perdita, si era sentito rispondere dal trattorista in modo evasivo di “arrangiarsi” mentre l’Albanese che era sulla mietitrice intento alla Raccolta del suo grano non aveva visto più nulla ed aveva sparato prima contro l’Albanese e poi contro il Ricciardi i colpi del suo fucile che, guarda caso, che nell’atto di portarsi nel fondo del vicino aveva causalmente addosso intendendo uccidere una serpe intravista nel proprio fondo. Gli investigatori della Fedelissima  interrogarono gli altri operai presenti al delitto: Biagio Di Mundo, Guglielmo Iannaccone e Antonio Visone i quali avevano fatto in tempo a gettarsi dal trattore prima che il Manera facesse fuoco. Il Manera dopo aver ucciso il Ricciardi, (operaio della mietitrice), ferito l’Albanese (vicino di terra e suo nemico) inseguì Generoso Longo, che era presente sul posto, il quale essendo il proprietario della mietitrice a lui veniva attribuito l’ingiusto comportamento. Per fortuna riuscì a fuggire mentre il Manera tentava di ricaricare a pallettoni il suo micidiale fucile.  Alla stregua di quanto sopra i carabinieri denunciavano all’A.G. il Manera per omicidio e tentato omicidio. A seguito degli  accertamenti predisposti dagli inquirenti i periti  Emiddio Farina e Pasquale Tagliacozzi,   nella loro relazione di perizia medico-legale accertavano che la morte del Ricciardi era stata cagionata da imponente emorragia dovuta alla lesione di grossi vasi e dei polmoni provocata da un colpo di arma da fuoco a canna lunga, portatile, caricata a caprioli, esploso da breve distanza che aveva attinta la regione sotto ascellare destra.  Il ferito veniva dichiarato guarita in 25 giorni poiché i cinque pallini che lo avevano raggiunto si erano fermati nei tessuti sottocutanei senza perciò penetrare in cavità. L’autopsia sul cadavere della vittima Vincenzo Ricciardi venne eseguita dai periti  della Procura Dott.ri  Emiddio Farina e Pasquale Tagliacozzi.  L’imputato,  confermava sostanzialmente le dichiarazioni rese ai carabinieri, chiarendo di “essersi sentito fortemente offeso dal contegno serbato dal proprietario  della mietitrice,  su evidente suggerimento del Ricciardi  e dell’Albanese”. Ed ecco la prima mossa della difesa. Su istanza del suo difensore, Avv. Giuseppe Garofalo, veniva avanzata il  al Giudice Istruttore istanza per far sottoporre il suo assistito a perizia psichiatrica in quanto “il Manera – era detto nell’istanza -  appartiene ad una famiglia tarata come provano gli allegati certificati relativi a due suoi prossimi congiunti”. Il primo ad occuparsi della presunta malattia mentale dell’imputato fu il Dott. Francesco Corrado, Medico alienista presso il Manicomio Giudiziario di Aversa il quale concludeva per la “non piena imputabilità dell’imputato”, con una diagnosi che  il soggetto0 era  inquadrabile in una forma di “delinquenza anomala, impulsiva, degenerativa, che non può definirsi normale, abituale, ambientale, reazionale o passionale”. E nelle conclusione – rafforzando la diagnosi espressa dal perito di ufficio - che Manera sia effettivamente un neurosico-anomalo; ossia uno psicopatico (ammissione del Dr. Corrado) ma che questa personalità psicopatica si illumina di tutte le caratteristiche dell’epilettivismo, per il fatto stesso di essere anamotivo, crudo, insensibile, quasi che la sfera affettiva-sentimentale fosse atimica o la sfera istintiva emotiva ossia temperamentale che di quella caratteriologica è una disormaonia della personalità a chiaro contenuto patologico inquadrabile nelle caratteristiche dello epilettoiode, discontinuo, freddo, anestetico, senza rimorsi né ravvedimenti;  adesivo e vischioso nell’atteggiamento mentale duro e quadrato come un macigno insensibile nei tegumenti e nell’animo (la cosiddetta legge Lombrosiana). Che tale personalità anomala o psicopatica  ha agito nell’episodio criminoso con una sproporzione tra stimolo 
e reazione con una precipitazione irrazionale e cieca; con un oscuramento di coscienza coperta da lacune amnesica, da raffigurare inquadrandola, la figurazione del crimine dell’epilettico”. E così concluse la sua perizia psichiatrica: “Che tale inquadramento  comporta una differente valutazione delle responsabilità psico-sociali e quindi dell’applicazione della pena, perché non era in quel momento nella piena capacità di intendere e di volere”.

A rafforzare tale posizione vi erano stati gli interventi del Prof. Annibale Puca, psichiatrica di fama e direttore del Manicomio Giudiziario  di Aversa, con una diagnosi:  “affetto da demenza senile con delirio geloso”. Il giudice istruttore al termine della sua istruttoria – su conforme richiesta del pubblico ministero – chiese il rinvio al giudizio del Manera per omicidio premeditato e tentato omicidio. Nella sua motivazione affermò, tra l’altro:  “è certo che il martedì 22 giugno del 1954, Generoso Longo procedette alla mietitura del grano nel fondo dello imputato a mezzo della sua mietitrice trainata da due buoi appartenenti l’uno al Manera e l’altro ad un vicino di fondo di costui, tal Michele Gilardi. Dei quattordici moggi di grano furono però mietuti soltanto una parte, benchè fosse tutto maturo, ma che poteva attendere ancora qualche giorno ed infatti il Manera desiderò conoscere in qual giorno la mietitura del suo grano sarebbe stata portata a termine. E’ da ritenersi che venne concordato al più tardi il giorno venticinque perché proprio da tal giorno è dato cogliere una certa ansietà del Manera. Giocò un ruolo determinante ed anche frastornante il fatto che si protrasse la mietitura sul fondo dell’Albanese (suo vicino e acerrimo nemico con il quale addirittura era impelagato in giudizi civili per danni e risarcimenti con atti di pignoramenti e sequestri) ed infatti quando ancora era in atto la mietitura appunto verso le ore 17 improvvisamente apparve sul limitare del fondo il Manera col fucile da caccia sulla spalla sinistra lamentando il fatto che erano trascorse le ore di proroga esclamando: “Compa Viciè, è a parola addo stà?”… e lui di rimando, con arroganza e strafottenza: “Devo prima farmi i cazzi miei e poi…”. A questo punto il Manera lasciò parlare la sua doppietta caricata a caprioli e lasciò sul fondo una cadavere ed un moribondo.
Fonte: Archivio di Stato di Caserta


L’agricoltore Pietro Manera  uccise il trattorista  Vincenzo Ricciardi e ferì gravemente il suo vicino Santo Albanese
Il duplice delitto era stato consumato perché  il trattorista  aveva promesso di mietere il grano quel giorno invece si era recato a mietere il grano dell’Albanese con cui il Manera non era da tempo in buoni rapporti.


Il verdetto fu di una condanna a 20 anni di reclusione. La Corte di Assise di Appello esaminò il ricorso riformando la sentenza e riducendo la pena
ad anni 17
Il verdetto fu di una condanna a 20 anni di reclusione. La Corte di Assise di Appello esaminò il ricorso riformando la sentenza e riducendo la pena
ad anni 17


Due anni dopo il delitto, Pietro Manera venne giudicato per omicidio volontario e tentato omicidio dalla Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere (Presidente, Giovanni Morfino; giudice a latere, Renato Mastrocinque; pubblico ministero, Gennaro Calabrese) il verdetto fu di una condanna a 20 anni di reclusione con la recidiva generica contestata in udienza e  la concessione delle attenuanti generiche (modificato il capo di imputazione da omicidio volontario e tentato omicidio in omicidio volontario continuato). In sede di dibattimento, però, il Manera cercò di riparare al suo assurdo delitto. Ma non fu  creduto dai giudici. “Non so neppure io come siamo partiti i colpi dal mio fucile…- esordì innanzi alla Corte - io avevo appuntamento con Generoso Longo, proprietario del trattore e della mietitrice fin dal giorno 20 giugno. Infatti il Longo aveva mietuto nel mio fondo una certa quantità di grano. Egli si allontanò il giorno diciannove dicendomi che sarebbe ritornato l’indomani.. egli invece mi portò per le lunghe senza darmi alcuna spiegazione. Il giorno del delitto mi portai sul mio terreno (erano 14 moggia di grano che per il calore andavano quasi tutti perduti) e portavo addosso il fucile carico, sia perché lo portavo abitualmente, sia perchè la mattina avevo notato una serpe sul mio fondo. Alle mie rimostranze sia il Ricciardi che l’Albanese mi risposero in malo modo… a quel punto ebbi un momento d’ira, quasi una paralisi dei sensi, imbracciai il fucile e partirono i due colpi…”. Infine a nulla valsero le tesi difensive sulla sua infermità mentale (decretata dal consulente di parte e negata dal perito di ufficio);   a nulla valsero i certificati del manicomio per il ricovero di due suoi prossimi congiunti (Dante Manera di Vincenzo e Vincenzo Antonio Manera fu Pietro, ricoverati il primo, il 9 ottobre del 1948, ed il secondo il 6 agosto del 1951). L’unica “vittoria” della difesa fu infine la contestazione della continuità del reato. Paca cosa? Non è vero perché 20 anni per un omicidio con la continuazione non sono pochi. Infatti la Corte di Assise di Appello esaminò il ricorso il 18 ottobre del 1957, riformando la sentenza e riducendo la pena ad anni 17. Gli avvocati impegnati nei tre gradi di giudizio furono: Mario Mastrolillo, Nicola Cariota Ferrara, Francesco Lugnano, Ciro Maffuccini e Giuseppe Garofalo.  


Fonte: Archivio di Stato di Caserta  

UN AVVOCATO DEL COLLEGIO DIFENSIVO IL SEN. FRANCESCO LUGNANO 

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