in
località “Forniello” in agro di
Raviscanina alle ore 17 del 26 giugno del 1954
LA MIETITURA DEL GRANO
INSANGUINATA DA UN DUPLICE DELITTO
L’agricoltore
Pietro Manera uccise il trattorista Vincenzo Ricciardi e ferì gravemente il suo
vicino Santo Albanese
Il duplice delitto era stato consumato
perché il trattorista aveva promesso di mietere il grano quel giorno
invece si era recato a mietere il grano dell’Albanese con cui il Manera non era
da tempo in buoni rapporti.
Sant’Angelo
d’Alife – Il 27 giugno del 1954 i carabinieri di Ailano,
furono informati che poco dopo le ore 17 in contrada “Forniello” di Raviscanina era stato consumato un omicidio e
immediatamente si portavano in tale località e precisamente sul fondo condotto
a mezzadria di tale Sante Albanese. Quivi constatavano che tal Vincenzo Ricciardi, già cadavere ed
insanguinato – specie al di sotto del braccio destro – era riverso sul sedile
di un trattore che al traino di una mietitrice era fermo poco lontano dalla
casa colonica dell’Albanese. Dalle dichiarazioni dei presenti riuscivano
prontamente ad assodare che tal Pietro
Manera, abitante in una masseria
distante circa 300 metri da quella dell’Albanese, aveva con due colpi di fucile
da caccia, esplosi una di seguito all’altro, colpito per primo l’Albanese, che trovavasi in piedi sulla mietitrice, poi
il Ricciardi che era alla guida del trattore. Che il duplice delitto era stato
consumato perché l’operaio aveva promesso di mietere il grano alle ore 14 di
quel giorno invece si era recato a mietere il grano dell’Albanese con cui il
Manera non era da tempo in buoni rapporti.
E subito gli inquirenti si chiesero: “Può una simile ragione essere
causa di un duplice delitto?”. Purtroppo era vero. Infatti il Manera
costituitosi nella serata presso la locale caserma dei carabinieri assumeva –
senza alcun pentimento – di aver commesso il delitto, accecato dall’ira perché
pur essendo stato per oltre quattro giorni dal proprietario della mietitrice
portato in giro per la mietitura dei suoi 14 tomoli, (ogni tomolo è circa 3500
mq.), di grano di cui perciò aveva temuto la perdita, si era sentito rispondere
dal trattorista in modo evasivo di “arrangiarsi” mentre l’Albanese che era
sulla mietitrice intento alla Raccolta del suo grano non aveva visto più nulla
ed aveva sparato prima contro l’Albanese e poi contro il Ricciardi i colpi del
suo fucile che, guarda caso, che nell’atto di portarsi nel fondo del vicino
aveva causalmente addosso intendendo uccidere una serpe intravista nel proprio
fondo. Gli investigatori della Fedelissima interrogarono gli altri operai presenti al
delitto: Biagio Di Mundo, Guglielmo Iannaccone e Antonio Visone i quali avevano fatto in
tempo a gettarsi dal trattore prima che il Manera facesse fuoco. Il Manera dopo
aver ucciso il Ricciardi, (operaio della mietitrice), ferito l’Albanese (vicino
di terra e suo nemico) inseguì Generoso
Longo, che era presente sul posto, il quale essendo il proprietario della
mietitrice a lui veniva attribuito l’ingiusto comportamento. Per fortuna riuscì
a fuggire mentre il Manera tentava di ricaricare a pallettoni il suo micidiale
fucile. Alla stregua di quanto sopra i
carabinieri denunciavano all’A.G. il Manera per omicidio e tentato omicidio. A
seguito degli accertamenti predisposti
dagli inquirenti i periti Emiddio Farina e Pasquale Tagliacozzi, nella
loro relazione di perizia medico-legale accertavano che la morte del Ricciardi
era stata cagionata da imponente emorragia dovuta alla lesione di grossi vasi e
dei polmoni provocata da un colpo di arma da fuoco a canna lunga, portatile,
caricata a caprioli, esploso da breve distanza che aveva attinta la regione
sotto ascellare destra. Il ferito veniva
dichiarato guarita in 25 giorni poiché i cinque pallini che lo avevano
raggiunto si erano fermati nei tessuti sottocutanei senza perciò penetrare in
cavità. L’autopsia sul cadavere della vittima Vincenzo Ricciardi venne eseguita
dai periti della Procura Dott.ri Emiddio
Farina e Pasquale Tagliacozzi. L’imputato, confermava sostanzialmente le dichiarazioni
rese ai carabinieri, chiarendo di “essersi
sentito fortemente offeso dal contegno serbato dal proprietario della mietitrice, su evidente suggerimento del Ricciardi e dell’Albanese”. Ed ecco la prima mossa
della difesa. Su istanza del suo difensore, Avv. Giuseppe Garofalo, veniva avanzata il al Giudice Istruttore istanza per far
sottoporre il suo assistito a perizia psichiatrica in quanto “il Manera – era detto nell’istanza - appartiene ad una famiglia tarata come
provano gli allegati certificati relativi a due suoi prossimi congiunti”. Il
primo ad occuparsi della presunta malattia mentale dell’imputato fu il Dott. Francesco Corrado, Medico alienista
presso il Manicomio Giudiziario di Aversa il quale concludeva per la “non piena imputabilità dell’imputato”, con
una diagnosi che il soggetto0 era inquadrabile in una forma di “delinquenza anomala, impulsiva,
degenerativa, che non può definirsi normale, abituale, ambientale, reazionale o
passionale”. E nelle conclusione – rafforzando la diagnosi espressa dal
perito di ufficio - “che Manera sia effettivamente un
neurosico-anomalo; ossia uno psicopatico (ammissione del Dr. Corrado) ma che questa personalità psicopatica si
illumina di tutte le caratteristiche dell’epilettivismo, per il fatto stesso di
essere anamotivo, crudo, insensibile, quasi che la sfera affettiva-sentimentale
fosse atimica o la sfera istintiva emotiva ossia temperamentale che di quella
caratteriologica è una disormaonia della personalità a chiaro contenuto
patologico inquadrabile nelle caratteristiche dello epilettoiode, discontinuo,
freddo, anestetico, senza rimorsi né ravvedimenti; adesivo e vischioso nell’atteggiamento mentale
duro e quadrato come un macigno insensibile nei tegumenti e nell’animo (la
cosiddetta legge Lombrosiana). Che tale
personalità anomala o psicopatica ha
agito nell’episodio criminoso con una sproporzione tra stimolo
e reazione con una precipitazione irrazionale e cieca; con un oscuramento di
coscienza coperta da lacune amnesica, da raffigurare inquadrandola, la
figurazione del crimine dell’epilettico”. E così concluse
la sua perizia psichiatrica: “Che tale
inquadramento comporta una differente
valutazione delle responsabilità psico-sociali e quindi dell’applicazione della
pena, perché non era in quel momento nella piena capacità di intendere e di
volere”.
A rafforzare tale posizione vi erano stati gli interventi del
Prof. Annibale Puca, psichiatrica di
fama e direttore del Manicomio Giudiziario
di Aversa, con una diagnosi: “affetto da demenza senile con delirio
geloso”. Il giudice istruttore al termine della sua istruttoria – su
conforme richiesta del pubblico ministero – chiese il rinvio al giudizio del
Manera per omicidio premeditato e tentato omicidio. Nella sua motivazione
affermò, tra l’altro: “è certo che il
martedì 22 giugno del 1954, Generoso
Longo procedette alla mietitura del grano nel fondo dello imputato a mezzo
della sua mietitrice trainata da due buoi appartenenti l’uno al Manera e
l’altro ad un vicino di fondo di costui, tal Michele Gilardi. Dei quattordici moggi di grano furono però mietuti
soltanto una parte, benchè fosse tutto maturo, ma che poteva attendere ancora
qualche giorno ed infatti il Manera desiderò conoscere in qual giorno la
mietitura del suo grano sarebbe stata portata a termine. E’ da ritenersi che
venne concordato al più tardi il giorno venticinque perché proprio da tal giorno
è dato cogliere una certa ansietà del Manera. Giocò un ruolo determinante ed
anche frastornante il fatto che si protrasse la mietitura sul fondo
dell’Albanese (suo vicino e acerrimo nemico con il quale addirittura era
impelagato in giudizi civili per danni e risarcimenti con atti di pignoramenti
e sequestri) ed infatti quando ancora era in atto la mietitura appunto verso le
ore 17 improvvisamente apparve sul limitare del fondo il Manera col fucile da
caccia sulla spalla sinistra lamentando il fatto che erano trascorse le ore di
proroga esclamando: “Compa Viciè, è a
parola addo stà?”… e lui di rimando, con arroganza e strafottenza: “Devo prima farmi i cazzi miei e poi…”.
A questo punto il Manera lasciò parlare la sua doppietta caricata a caprioli e
lasciò sul fondo una cadavere ed un moribondo.
Fonte:
Archivio di Stato di Caserta
L’agricoltore Pietro Manera uccise il trattorista Vincenzo Ricciardi e ferì gravemente il suo vicino Santo Albanese
Il
duplice delitto era stato consumato perché
il trattorista aveva promesso di mietere
il grano quel giorno invece si era recato a mietere il grano dell’Albanese con
cui il Manera non era da tempo in buoni rapporti.
Il
verdetto fu di una condanna a 20 anni di reclusione. La Corte di Assise di
Appello esaminò il ricorso riformando la sentenza e riducendo la pena
ad
anni 17
Il verdetto
fu di una condanna a 20 anni di reclusione. La Corte di Assise di Appello
esaminò il ricorso riformando la sentenza e riducendo la pena
ad anni 17
Due anni dopo il
delitto, Pietro Manera venne
giudicato per omicidio volontario e tentato omicidio dalla Corte di Assise di
Santa Maria Capua Vetere (Presidente, Giovanni
Morfino; giudice a latere, Renato
Mastrocinque; pubblico ministero, Gennaro
Calabrese) il verdetto fu di una condanna a 20 anni di reclusione con la
recidiva generica contestata in udienza e la concessione delle attenuanti generiche
(modificato il capo di imputazione da omicidio volontario e tentato omicidio in
omicidio volontario continuato). In sede di dibattimento, però, il Manera cercò
di riparare al suo assurdo delitto. Ma non fu
creduto dai giudici. “Non so
neppure io come siamo partiti i colpi dal mio fucile…- esordì innanzi alla
Corte - io avevo appuntamento con
Generoso Longo, proprietario del trattore e della mietitrice fin dal giorno 20
giugno. Infatti il Longo aveva mietuto nel mio fondo una certa quantità di
grano. Egli si allontanò il giorno diciannove dicendomi che sarebbe ritornato
l’indomani.. egli invece mi portò per le lunghe senza darmi alcuna spiegazione.
Il giorno del delitto mi portai sul mio terreno (erano 14 moggia di grano
che per il calore andavano quasi tutti perduti) e portavo addosso il fucile carico, sia perché lo portavo abitualmente,
sia perchè la mattina avevo notato una serpe sul mio fondo. Alle mie
rimostranze sia il Ricciardi che l’Albanese mi risposero in malo modo… a quel
punto ebbi un momento d’ira, quasi una paralisi dei sensi, imbracciai il fucile
e partirono i due colpi…”. Infine a nulla valsero le tesi difensive sulla
sua infermità mentale (decretata dal consulente di parte e negata dal perito di
ufficio); a nulla valsero i
certificati del manicomio per il ricovero di due suoi prossimi congiunti (Dante Manera di Vincenzo e Vincenzo Antonio Manera fu Pietro,
ricoverati il primo, il 9 ottobre del 1948, ed il secondo il 6 agosto del
1951). L’unica “vittoria” della difesa fu infine la contestazione della
continuità del reato. Paca cosa? Non è vero perché 20 anni per un omicidio con
la continuazione non sono pochi. Infatti la Corte di Assise di Appello esaminò
il ricorso il 18 ottobre del 1957, riformando la sentenza e riducendo la pena
ad anni 17. Gli avvocati impegnati nei tre gradi di giudizio furono: Mario Mastrolillo, Nicola Cariota Ferrara, Francesco
Lugnano, Ciro Maffuccini e Giuseppe Garofalo.
Fonte:
Archivio di Stato di Caserta
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