IL SERIAL KILLER SALVATORE CAPOLUONGO
VENNE CONDANNATO ALL’ERGASTOLO DAI PRIMI GIUDICI – CONDANNA RIDOTTA IN APPELLO
AD ANNI TRENTA
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La masseria del primo delitto |
I PERITI DI UFFICIO: ”NEL MOMENTO IN
CUI COMMISE I FATTI ERA NELLA PIENA CAPACITÀ DI INTENDERE E DI VOLERE. E’
SOCIALMENTE PERICOLOSO” .
IL CONSULENTE DI PARTE CON UNA RELAZIONE
DI 50 PAGINE AVEVA RIBALTATO IL RESPONSO
DEI PERITI DI UFFICIO. “L’IMPUTATO È PAZZO”.
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La masseria Pizzolungo con il cadavere di una vittima ed un carabinieri di guardia |
L’orrore dei delitti “a valanga” suscita nell’animo di chi ascolta
un senso di raccapriccio e la legittima suspicione che la mostruosità del
crimine sia espressione di una “morbosità dello spirito”.
Per il Dna a delinquere della zona si è avanzata l’ipotesi che può trattarsi dei
tardi discendenti di una colonia penale normanna.
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Salvatore Capoluongo, il primo serial killer di Terra di Lavoro |
Santa Maria Capua Vetere –
Un eccidio senza precedenti quello di Salvatore Capoluongo, definito dai giornali dell’epoca “La belva di Vico di Pantano” , che
uccise quattro persone e ne ferì due, compreso il fratello, che è entrato nella
storia criminale della nostra provincia come il primo “serial killer”, anche se poi negli anni successivi se ne sono
aggiunti altri due, con delitti più atroci, barbari ed efferati e con un aumento delle vittime. Il 6 ottobre
del I974 ad Aversa, Carlo
Panfilla, definito ”Il mostro di
Lusciano”, uccise 7 persone. Fu arrestato
nel cimitero del suo paese, dove aveva trovato rifugio in una nicchia. Quando
fu catturato, vi dormiva nudo. Ritenuto incapace di intendere e di volere, fu
rinchiuso nel manicomio giudiziario di Aversa. Condannato prima all’ergastolo e
poi 30 anni. In molti ricorderanno anche il secondino del carcere di Carinola, Domenico Cavasso, il quale a marzo del 1995 uccise
sette persone, quattro familiari, a Macerata Campania e tre impiegati della Conservatoria
dei Registri Immobiliari di Santa Maria Capua Vetere, ferendo altri due
presenti. Fu condannato a 15 anni di carcere, con la seminfermità mentale, e
oggi e in mezzo a noi… “pronto a
riprendere il lavoro lasciato in sospeso”. Ma ritorniamo alla storia di
oggi. Salvatore Capoluongo, dopo il
suo arresto e dopo aver commesso i quattro omicidi ed i due tentativi di
omicidio (compreso quello di uccidere un fratello) fu messo sotto osservazione
– come era naturale – psichiatrica, ma stranamente per i suoi difensori non si
rivelò una carta vincente. L’ergastolo era uno scettro che rimaneva lì ancorato
al destino del giovane che aveva bruciato la sua vita per una donna. Ma in ogni
processo grave per omicidio la difesa la prima cosa che fa è quella di tentare
la carta della “infermità mentale”.
Fatto gli è, però, che anche i giudici la pensavano allo stesso modo, ma non si
fidavano dei certificati esibiti dai difensori. Infatti a giugno del 1954 venne
affidato l’incarico per la perizia di ufficio a due illustri psichiatri
dell’epoca, il prof. Annibale Puca,
direttore dell’Ospedale Psichiatrico Santa Maria Maddalena di Aversa e al
primario Prof. Gennaro Mattioli
dello stesso nosocomio. Nelle oltre 50 pagine dattiloscritte i periti
ripercossero tutto l’iter degli aberranti delitti. Quell’otto maggio del 1953,
si diffuse rapidamente nell’agro aversano la notizia appresa con vivo
raccapriccio e terrore, che la sera precedente
nelle campagne tra Casal di Principe e Villa Literno un giovane aveva ucciso uno dopo l’altro, scovandoli
nelle proprie dimore – da cinque agricoltori della zona r tra questi un suo
fratello e l’omicida, fatte disperdere le sue tracce vagava, armato, ancora per i campi in cerca di
altri personaggi da sopprimere. Un telegramma urgente della Compagnia dei
carabinieri di Santa Maria Capua Vetere alla locale Procura chiariva qualche
aspetto dell’intrigata vicenda. “In contrada “Martino”, nel comune di Villa Literno, l’agricoltore 21enne Salvatore Capoluongo uccideva con armi
da fuoco agricoltori Raffaele Martino
et Michele Fabozzi. Successivamente
in contrada “Fornara”, uccideva
agricoltore Giuseppe Diana, mentre
dopo circa un’ora in contrada “Altomonte”,
dopo aver ucciso agricoltore Michele Martino feriva gravemente agricoltore Corrado Capoluongo, ferendo poscia, in
località “Chiusa” , il proprio
fratello 20enne Antonio Capoluongo. Sono
in corso indagini per arrestare il latitante”. L’arresto, infatti, avvenne
quattro giorni dopo alle 22 dell’11
maggio - ad opera dei carabinieri i
quali avuto il sentore del combinato – scovarono il Capoluongo nel bagaglio
della propria macchina con la quale i suoi prossimi parenti lo avevano condotto
presso lo studio dell’avv. Giuseppe
Garofalo, al Corso Umberto I di
Santa Maria Capua Vetere.
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L'Avv. Giuseppe Garofalo difensore del Capoluongo |
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La pistola dell'assassino |
Al pronto interrogatorio effettuato dal magistrato
inquirente presso le carceri della città del Foro il Capoluongo espose i suoi
crimini con “perfetta lucidità, nessuna titubanza, nessuna incertezza”. Ma
subito gli avvocati difensori tentarono la “carta” della “seminfermità mentale”
per salvare il loro assistito dalla “morte
bianca” con il marchio del “fine pena
mai”, cioè dall’ergastolo! Infatti presentarono agli inquirenti un
certificato dal quale si evinceva che il Salvatore Capoluongo era nato di sette
mesi ed aveva sofferto, fin dall’infanzia, “crisi spamodiche”. Nella relazione presentata
tanta si evinceva anche che il soggetto più tardi era stato affetto da crisi
depressive con intensa cefalea. A 13 anni Salvatore Capoluongo si fissò che
doveva lanciarsi dalla finestra nel vuoto. Sorvegliato a vista appena lasciato
solo effettivamente si lanciò dalla finestra. La cosa è avvalorata dalle
testimonianze dei familiari e dalla certificazione del dr. Raffale Cantelli. Fu anche presentato un quadro degli avi “non in perfette condizioni mentali”. La
nonna materna, Annunziata Iovine, “malata
di mente”; una zia materna, Giovanna Del
Villano, era una “deficiente reattiva”; uno zio materno Giovanni Del Villano, fu ricoverato in
manicomio perchè affetto da “depressione ricorrente in soggetto
neuropsicopatico”; un fratello del nonno paterno Clemente Capoluongo fu ricoverato in manicomio perché affetto da
“imbecillità” con episodico delirio sensoriale. Nell’anamnesi generale i periti
accertarono che il padre dell’imputato Nicola
Capoluongo, aveva sposato in prime nozze la vedova di un proprio fratello
dalla quale aveva avuto il figlio Marcantonio. Rimasto vedovo – nel 1928 – all’età di 26
anni si era sposato in seconde nozze con ùrosa Del Villano di anni 20
procreando altri sette figli. Di essi Salvatore è il primo. L’imputato alla
visita di leva fu inviato in osservazione all’Ospedale Militare di Caserta dove
fu riformato per “ipospadia all’indietro al solco balano prepuziale”. Il
Capoluongo fu posto a disposizione dei periti psichiatrici presso l’Ospedale
Psichiatrico Sez. Criminali. In uno dei suoi numerosi interrogatori dichiarò
che Maddalena Capoluongo, sorella
del padre, si buttò in un pozzo pochi mesi prima e cioè durante la sua
permanenza in manicomio. Per quanto attiene ai suoi delitti – scrivono i periti
nella loro relazione – il Capoluongo ha sempre detto di non ricordare nulla. Di avere ucciso
il fratello e poi che gli avevano riferito che erano stati uccisi anche altre 4
contadini. Secondo i periti egli stava simulando uno stato di pazzia. Una prima
diagnosi chiarisce che “Riassumendo i dati dell’indagine psichica possiamo dire – scrissero i periti – che il
Capoluongo nonostante il particolare stato psicologico reattivo del momento che
lo induce – come è facile pensare – ad una schematizzazione dei suoi pensieri
attraverso una diuturna continua ruminazione dei suoi fatti, non presenta
particolari e specifici segni che richiamino l’attenzione dal punto di vista
psichiatrico. L’orrore dei delitti “a valanga” suscita nell’animo di chi
ascolta un senso di raccapriccio e la legittima suspicione che la mostruosità
del crimine sia espressione di una “morbosità dello spirito”.
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L'Avv. Alfonso Martucci difensore di parte civile |
Ma il nostro
compito non è giudicare il senso morale – scrissero i periti – né risentire
l’onda di sdegno e il brivido che viene dal pubblico bensì quello di inquadrare
il caso nelle sue caratteristiche somatiche e psichiche, per cercare nel
meccanismo o nell’azione del delitto il filone palese o nascosto che possa
illuminare il determinismo o la volontarietà del delitto che sorge nelle
strutture organiche e nelle reazioni psichiche come forma della mente malata o
della coscienza”. Alla domanda, ricorrente dei periti: “Raccontaci quel che hai fatto e perché sei qua – Capoluongo ci ha detto che aveva ucciso il
fratello e si era dato alla fuga e che non ricordava più niente. Questa
risposta era diventata una “stereotipia”,
una posizione di panacea, dietro cui l’uomo si occultava a difesa”. Un vero
e proprio “j’accuse”, fu stilato dai periti nella relazione finale (sia pure
indirettamente) nei confronti delle popolazioni dell’agro aversano (ignobile,
perché è sempre negativo fare di tutte l’erba un fascio) nel concludere il
responso sull’imputato. “Scarsa dal punto di vista psichiatrico il complesso
ereditario ma l’ereditarietà dal punto di vista “criminale” è più
significativa, se è vero quello che si dice, che molti anni addietro Marcantonio Capoluongo, padre di Nicola uccise il figlio Saverio rimanendo ucciso dall’altro
figlio Nicola padre dell’attuale imputato ma la
tradizionale rigida omertà della gente del luogo impedì che il fratricidio
venisse scoperto.
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Il frontespizio della perizia psichiatrica |
E’imponente questa eredità criminologica nella popolazione di
Albanova al limiti quasi netti fra il resto di quella popolazione agricola,
assai operosa. Sì che viene il sospetto che determinati fattori
“eredo-biologici” siano alla base di queste nature violente, impulsive,
incontinenti, che non si adattano alla civile convivenza ed al gioco della
legge ed applicano solo la “legge del taglione”. Vale la pena ricordare che
altrove si è avanzata l’ipotesi che può trattarsi dei tardi discendenti di una
colonia penale normanna. Ad ogni modo queste genesi “endogene” della criminalità se affermano un
maggiore determinismo all’atto criminoso, non sono da interpretarsi di natura
patogena in quanto modificazioni quantitative e non qualificative della vita
istintiva e temporale con integre le zone razionali. In conclusione i periti di ufficio affermarono
che l’imputato aveva la capacità di stare in giudizio nonostante
“fosse incapace di sentimenti e di slanci, con impulsi non sempre
equilibrati e ben compensati, che ripete una legge costituzionale comune alla
sua specie; ma non è un elemento teratologico, non è un “mostro dello spirito”.
Forse potrebbe discutersi la tendenza incoercibile alla delinquenzialità; ma non rientra nella
patologia per disturbi qualitativi della personalità istintiva, temporale,
razionale e neologica. “Circa la pericolosità sociale – scrissero i periti
nelle loro conclusioni – diremo solo che è grandissima e che in genere questo
criminale non si arresta al suo primo delitto, tanto più che su i suoi delitti
non si è ripiegato con spirito di contrizione o con un sentimento di rimorso.
Aridità affettiva, che non è sempre stigma patologica; ma più spesso, quando è
isolata. Stigma criminale”. Ecco la chiosatura finale: ”Salvatore Capoluongo ha una struttura personale, biologica e
psicologica, in cui non possiamo trovare segni di psicopatie o neuropatie in atto oltre la lieve fase
reattiva “post-criminosa” che è colorito isteroide, e oltre una certa
fondamentale rudimentalità del livello
mentale, che non raggiunge però i limiti della deficienza psichica. Nel momento in cui commise i fatti era
nella piena capacità di intendere e di volere.
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L'Avv. Prof. Enrico Altavilla |
E’ socialmente pericoloso”. Come
era legittimo i difensori dell’imputato, che per sottrarre il loro assistito
alla pena dell’ergastolo avevano chiesto una perizia psichiatrica rimasero
altamente delusi ma non si arresero. Infatti una consulenza di parte affidata
all’illustre psichiatra dell’epoca il prof. Benigno Di Tullio decretò il contrario di quello che avevano
diagnosticato i periti di ufficio. Il consulente di parte, dopo aver esaminato
la perizia di ufficio negli elementi più importanti iniziò una vera e propria
“demolizione” del castello psichiatrico costruito dai proff. Puca e Mattioli.
“Per quanto riguarda il delitto – confutò Di Tullio – i periti affermavano che
l’odio esploso contro il fratellastro era relativo “per le mali arte delle
femmine”. Compiuto il fratricidio gli altri 4 omicidi e un ferimento non
rappresenterebbero che un completamento accessorio, e ciò in base alla legge
del “tutto o niente”, per cui,
valicato il solco, la belluinità non si raffrena né conosce o subisce
controlli”. Altro motivo “scriminante”- ipotizzò il consulente di parte - potrebbe essere la morte del nonno, avvenuta
sette giorni prima dei delitti, al quale
il giovane era molto affezionato. Il dolore fu tale – raccontò Salvatore
Capoluongo - che si sentì ben presto
preso da un profondo avvilimento con conseguente insonnia e anoressia.
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Il Prof. Avv. Alberto Martucci |
La
pena dell’ergastolo fu ridotta ad anni trenta perché il Capoluongo venne
riconosciuto pazzo.
La Corte di Assise (Presidente, Giovanni Morfino; giudice a latere, Renato Mastrocinque; pubblico
ministero, Francesco Andreaggi)
condannò all’ergastolo, con isolamento diurno per mesi sei, Salvatore
Capoluongo dichiarato colpevole di tentato omicidio in persona del fratello Marcantonio, nonché di omicidio
continuato e aggravato in persona di
Michele Martino, Raffaele Martino, Michele Fabozzi, Giuseppe Diana, e Corrado
Capoluongo, di violazione di domicilio continuato e aggravato. L’ergastolo
pesava, i difensori non erano riusciti a “salvarlo” con la perizia di parte. Fu
proposto appello. Si lamentavano vari motivi: Doveva essere ritenuta la
continuazione per tutti i reati, non poteva affermarsi il motivo futile e
abietto; doveva essere prosciolto per vizio di mente, o concessa l’attenuante
del vizio parziale ed subordine le attenuanti generiche. Tutto si risolse in
grado di appello. Il perito di parte Benigno
Di Tullio capovolse il responso dei primi giudici. Infatti, dopo aver
ricostruito la personalità dell’imputato sulla base della perizia di ufficio,
dopo aver ricostruito la dinamica del suo delitto, “egli si è sentito dominato dall’idea di punire il colpevole”, il
Prof. Di Tullio affrontò l’ultima parte
della perizia diretta a definire clinicamente lo stato mentale nel momento del
delitto.
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L'Avv. Michele Verzillo |
Nel premettere, infine, che alla base delle attività criminose si
ritrova un processo morboso di natura inizialmente epilettica in quanto – come
affermano molti studiosi – i delitti degli epilettici sono assolutamente
“ciechi” e “indiscriminati”. “Il
Capoluongo presenta – affermò in definitiva Di Tullio – una personalità
psicopatica epilettoide sulla cui base, per l’influenza di fattori emotivi e
dismetabolici, si è sviluppata acutamente una crisi di automatismo psicomotorio
epilettico, che lo ha portato al ferimento del fratellastro. A seguito poi
della grave emozione shok del primo delitto, si è sviluppato in lui uno stato
reattivo deliroide con automatismo ambulatorio, per il quale è stato spinto a
compiere gli altri reati. “E’ infine necessario precisare che anche i delitti
compiuti dal Capoluongo trovano la loro genesi più profonda in situazioni
sentimentali preesistenti, per cui tutti i delitti da lui compiuti, pur
presentando un diverso meccanismo patogenetico, sono da considerarsi
strettamente uniti tra di loro come nel caso del delitto continuato. In
aderenza a questo risultato i giudici di secondo grado così si espressero: “Per
quanto sopra riteniamo di poter concludere affermando che Salvatore Capoluongo,
nel momento in cui ha compiuto i fatti per cui è processo si trovava, per
infermità, in uno stato di incapacità di intendere e di volere.
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L'Avv. Ciro Maffuccini |
Data la sua
personalità e la predisposizione a processi psichici morbosi, è da considerarsi
soggetto socialmente pericoloso”. Con
una relazione di 50 pagine Benigno Di Tullio aveva ribaltato il responso dei periti
di ufficio. L’imputato è pazzo. Si arriva così al secondo giudizio e la Corte di Assise di Appello di
Napoli, (Presidente, Duilio Grassini, giudice a latere, Gennaro Serio, pubblico ministero, Roberto
Angelone) accogliendo alcuni rilievi della difesa in parziale riforma della prima sentenza, con
la esclusione dell’aggravante del motivo futile, ridusse la pena ad anni 30 di
reclusione. Gli avvocati impegnati nei
tre gradi di giudizio per l’imputato furono: Giuseppe Garofalo, Nicola
Foschini e Enrico Altavilla, mentre per le parti civili si costituirono: Luciano Pesce, Ciro Maffuccini, Alfonso
Raffone, Michele Verzillo, Alberto Martucci, e Alfonso Martucci.
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