Una storia di corna, di
lettere anonime, di amori saffici, di suore in convento e di follia omicida
Enrico Gallozzi, Francesco Montesano, Teresa Fusaro,
Pasquale Raimondo
Grazzanise, Vitulazio, “Masseria Piglialarmi”, agosto 1952
Spesso la realtà supera la fantasia. E questa storia lo
conferma.
Un aggrovigliarsi di eventi satanici e diabolici che
sembrano
usciti dalla mente di Satana… ma che invece, sono purtroppo,
cruda realtà. Correva il mese di agosto del 1952, da dietro
un cespuglio della tenuta “Piglialarmi”
in tenimento di Vitulazio, esce
un individuo che con un fucile da caccia, caricato a
pallettoni uccide
il Dr. Enrico Gallozzi, chirurgo, 61 anni, latifondista, nipote
del Sen. Carlo Gallozzi (deputato del Regno d’Italia, insigne professore universitario,
che succedette al chirurgo Ferdinando
Palasciano; a lui sono intitolati una strada e
una scuola nella sua città
natale Santa Maria Capua Vetere) giunto sul posto a bordo
della
sua auto condotta dall’autista Vito Di Lillo, anche
lui sammaritano
e il suo fattore Vincenzo
Montesano, di anni 52 da Grazzanise. A
scoprire i cadaveri fu il contadino Antonio Mercone, da
Pastorano,
il quale avvisò i carabinieri e sul posto convennero il mar.
Giovanni
Pautasso e il Brig. Raffaele D’Alessandro, con il
medico di turno
Dr. Raffaele Cuccari. Il primo ad essere sospettato è il guardiano
dell’azienda agricola Pasquale
Raimondo, 49 anni da Grazzanise.
Perché? Le prime indagini sulla perizia medico-legale
eseguite dai
periti dottori Michele
Sanvitale, Pasquale
Tagliacozzi e Mario
Pugliese, retrodatarono la morte alle 24 ore
precedenti, ed accerta-rono che il Gallozzi era stato attinto ai polmoni, il
Montesano agli
organi interni, ma era stato finito con un colpo alla testa.
Per prima cosa destò sospetto il fatto che il guardiano si diede alla macchia,
poi, in seguito ad una perquisizione effettuata dopo il delitto, dal
maresciallo Luigi Bruno, comandante la Stazione dei Carabinieri di Vitulazio, fu
rinvenuta l’arma del delitto e si consolidò il sospetto che lui fosse
l’assassino anche perché vi erano stati numerosi episodi venuti alla luce nel
corso delle indagini.
Costituitosi al direttore delle carceri Enrico Matano confessò:
“Ho ucciso Gallozzi perché aveva sedotto mia figlia ed era
l’amante di mia moglie e Montesano perché, pur sapendo la cosa, ed essendo mio
compaesano, non mi aveva riferito della tresca”.
Il tutto era frutto della sua fantasia. Ossia, era la sua
versione
dei fatti, instillatasi nella sua mente malata e perversa.
Ma facciamo
un passo indietro per meglio capire l’intrigata vicenda. I
carabinieri
accertarono, anche in base a serrati interrogatori di Maria Petrella,
moglie del fattore ucciso Montesano, che a Pasquale
Raimondo,
guardiano delle terre del Dr. Gallozzi, da un poco di tempo
arrivavano
lettere anonime dalle quali si evinceva che sua figlia Maria
Raimondo (all’epoca dei fatti
16enne) era stata deflorata dal Dr.
Gallozzi, e che la madre Giovannina Tessitore, 46 anni,
moglie del
Raimondo era l’amante del Gallozzi. La teste precisava,
inoltre, che
in paese correva voce che la figlia del Raimondo Maria era
stata
“deflorata” e “riparata” nella sua verginità dal Dr.
Gallozzi (egli infatti
era un ottimo chirurgo) ma la madre della ragazza sosteneva
che era una calunnia.
Inoltre, un tale Enrico
Parente da Grazzanise, andava da
tempo sparlando e sostenendo che Giovannina Tessitore, moglie
di Pasquale Raimondo, faceva la “puttana”, ed era amante del
Dr.
Gallozzi. Ciò precisava di aver appreso da Vincenzo
Montesano
fattore dei beni Gallozzi. Intanto continuavano ad arrivare
lettere
anonime ed una giunse addirittura alla moglie del Montesano
con
la quale si annunciava “l’assassinio del marito per mano di
Pasquale
Raimondo” da lui più volte calunniato. La moglie del
Raimondo,
informata dell’arrivo della lettera anonima che parlava del
suo marito
come probabile assassino dedusse che a Grazzanise vi erano
molte persone che erano invidiose delle famiglie
“Raimondo-Montesano”
perché alcuni membri delle stesse lavoravano presso il
latifondo
del Dr. Gallozzi.
Allora si faceva veramente la fame poiché era da pochi anni
terminata la guerra. Ecco il primo atto di pazzia. Venuto a
conoscenza
di questa circostanza, Pasquale Raimondo prese un pugnale
e lo consegnò alla moglie e le ordinò di uccidere Enrico
Parente e
chiunque avesse parlato male della figlia e della moglie. Il
Raimondo
riteneva il Montesano un “traditore“ ed un “fetente” perché
essendo paesano e conoscendo dei fatti scabrosi non glieli
aveva riferito.
Dal canto suo il Dr. Gallozzi, che riteneva tutte le accuse
infondate, essendo egli innocente degli addebiti, si adoperò
per
una riconciliazione, ma il Raimondo restò fermo sulla
convinzione
che a inviare le lettere anonime fosse stato il fattore
Vincenzo Montesano.
I carabinieri appurarono che il Raimondo, da circa tre anni
aveva scacciato di casa la moglie e la figlia Maria perché
le lettere
anonime gli avevano comunicato che la figlia era stata
“sedotta” e
la moglie era “l’amante” di Gallozzi. A questo punto della
vicenda
il primo colpo di scena. Maria Raimondo, scacciata da casa,
con
un’accusa assurda e calunniosa, (la madre addirittura
l’aveva fatta
controllare ad un professore di Napoli che la dichiarò
“illibata”), e
presa dallo sconforto, anche per sottrarsi ai continui
maltrattamenti
del padre (pare che avesse tentato anche di violentarla) si
andò a
fare suora presso il Convento di “Calvi dell’Umilia” in
Terni.
Tra gli episodi “singolari” per non dire “strani” di questa
vicenda
è da inquadrare il rapporto di coppia tra la moglie e
l’assassino.
Lei, pur essendo divisa da oltre tre anni, il sabato sera
andava
a coricarsi con il marito, nella masseria “Piglialarmi” a
Pastorano,
venendo apposta da Grazzanise. Perché lo faceva? Per
dimostrare
che non aveva rapporti con altri uomini? Lei stessa raccontò
agli
inquirenti i risvolti dei bruschi colloqui amorosi. Pasquale
Raimondo,
infatti, mentre sfogava i suoi istinti sessuali
l’apostrofava
con epiteti (puttana,
troia) ed a fine rapporto la picchiava
selvaggiamente
con una frusta e poi le sputava in faccia. In una
circostanza
cercò addirittura di strangolarla. Ma subito dopo averle
contestato che era l’amante del Gallozzi e che non aveva
avuto cura
della figlia, scoppiava in un pianto dirotto. Le ecchimosi,
le ferite
ai glutei e alle braccia della donna furono riscontrate dal
dr. Giovanni
Izzo, da Grazzanise, che confermarono
l’assunto della stessa.
Insomma Pasquale Raimondo era un pazzo, un feticista, un
voyer o un sadico sessuale? Ma chi continuava a far arrivare
al Raimondo le missive anonime? Mistero!
Nell’ultima (le lettere sono tutte allegate al processo)
veniva
descritta tutta una circostanza precisa. “La ragazza è stata
deflorata.
La mamma l’ha portata dal Dr. Gallozzi e questi l’ha
“riparata” facendola ritornare vergine e lei… per ricompensarlo si era
concessa”.
Non era affatto vero, ma nella mente del Raimondo si
instillò
il “tarlo del dubbio” e della veridicità dei fatti. E lui
diventava
sempre più violento e sadico contro le sue donne. Tanto è
vero che
la figlia Teresa di 21 anni, fu costretta per sottrarsi alle
sue violenze
e fare la “fuitina” dopo essere stata sedotta, e si sposò con Giuseppe
Fusaro, lontano da
Grazzanise. Ed inoltre si appurava che il Raimondo nutriva dissapori
contro il Vincenzo Montesano, una delle sue vittime
(nonostante
che fosse stato il fratello di quest’ultimo, il sacerdote Francesco
Montesano, a farlo assumere
nell’azienda Gallozzi) perché questi
era riuscito ad emergere nel suo lavoro ed era nelle grazie
del padrone.
Ed eccoci al secondo colpo di scena. Angelo Parente, ricevitore
postale di Grazzanise, rivelò che autrice delle lettere
anonime
che giungevano al Raimondo era tale Angelina Fusaro, 32
anni,
da Grazzanise, una sarta “lesbica”, presso la quale in
passato aveva
lavorato la figlia del Raimondo, che poi si era fatta suora.
Il perito calligrafico di ufficio, Prof. Attilio D’Angelo, da
Caserta, dopo la comparazione con altri scritti, attribuì le
lettere
anonime alla sarta Angelina Fusaro. Intanto Pasquale
Raimondo,
detenuto nel carcere di S. Maria C.V., con la pesante accusa
di duplice
omicidio aggravato, appariva depresso e malinconico (un reo
folle o un perfetto simulatore?) e per questo fu sottoposto,
su ordine
degli inquirenti, a perizia psichiatrica dai Prof. Pasquale Coppola,
Primario del Manicomio di Aversa e dal Prof. Filippo
Saporito (il più noto
psichiatra dell’epoca).
Subito si scoprirono antenati pazzi (è un classico nei
processi
penali). Maria Raimondo, sua zia paterna, era una psicopatica;
altri antenati erano morti per lue e per mente debole. In
117 pagine,
i due periti di ufficio (ai quali venne liquidata una
parcella
di lire 43 mila quasi 600 euro di oggi) conclusero che
Pasquale
Raimondo risultava già “costituzionalmente predisposto alle
malattie
mentali, per eredità psicopatica, e per precoce involuzione
senile. Che, le lettere anonime a lui e ad altri pervenute
intorno
alla sua onorabilità di marito e di padre, con i relativi
commenti
corsi nel suo ambiente, nei rapporti, soprattutto coi suoi
datori di
lavoro, agirono su di lui come altrettanti “traumi psichici”
in tutto
il loro valore clinico-psichiatrico. Che, sotto l’azione di
tali traumi
sommantisi, man mano, nei loro effetti patogeni il Raimondo
contrasse
una vera e propria psicosi, in forma delirante paranoidea, a
contenuto geloso, ammantate da taciturnità, ma a decorso
continuo
e progressivo, con rare episodiche manifestazioni esteriori
espressive della loro morbosità. Che, nella notte precedente
al delitto,
la psicosi ebbe una esplosione acuta, a forma di
confabulazione
rappresentativa della sua vicenda familiare quale gli era
stata
configurata dalla psicosi, e dalla quale trasse il motivo
morboso a
delinquere. Che la sindrome psicopatica svelatasi nel corso della
istruttoria, e tuttora in atto, a carattere confusionale,
non è che
una fase di collasso strettamente connessa con le sindromi
precedenti
e costituisce, insieme con esse, tutto un unico processo
psicosico,
ancora capace di non prevedibili sviluppi. Che, nell’atto
dei commessi reati, il Raimondo trovavasi in tale stato di
infermità
di mente da escludere la capacità di intendere e volere e
che l’imputato
è persona socialmente pericolosa”.
Anche in questo processo, come del resto nel processo ad
Aurelio Tafuri, ho
riscontrato una grande battaglia tra i periti.
Una guerra fredda, calcolata, che spesso approda a risultati
di
”parte”. Raimondo per i periti di ufficio è pazzo e non è
punibile.
Per quelli di parte (Prof. Annibale
Puca e Prof. Giacomo
Cascella,
per conto della vedova Montesano) è sano di mente ed è un
simulatore.
Alla fine chi ha vinto? Non certo la giustizia!
Infatti i giudici, due anni dopo il delitto, furono
costretti a
rivedere le cose ed ordinarono una perizia “suppletiva” che
fu estesa
al Prof. Vincenzo Barbuto, e al Prof. Filippo
Saporito. Ai quali fu
chiesto espressamente: “Dite se le lettere anonime ricevute
dall’imputato
abbiano avuto efficienza causale scatenante il delirio di
gelosia
ovvero furono solo un fattore condizionante dello stesso, se
il
delitto si sarebbe verificato senza l’arrivo della lettere
anonime”.
Il loro responso fu che “le lettere anonime pervenute
all’imputato
non hanno avuto efficienza causale scatenante il delirio di
gelosia del Raimondo accertato con la precedente perizia
giudiziale
e che esse furono soltanto un fattore accessorio
concomitante di
un processo psicopatologico a lungo decorso, dovuto a cause
precedentemente
intrinseche alla sua personalità e che avrebbe potuto
insorgere anche senza di esse”.
Di parere diverso, il prof. Puca e il prof. Cascella,
Direttore
e Assistente dell’Ospedale S. Maria Maddalena di Aversa
(così si
chiamava prima il manicomio) per la parte civile. “E’
spiegabile, è
possibile, che un uomo, fino a poche ore prima che si era
dimostrato
lucido, logico, coerente, consequenziale, senza deficienze
psichiche
e senza disturbi “psico-sensoriali” improvvisamente - con
un trasformismo da palcoscenico - diventi dissociato e
confuso al
punto da non riuscire neppure a pronunciare una frase
sensata? Vi
è un capitolo in Psichiatria che contempla tale evenienza al
di fuori
della simulazione? “Noi non lo crediamo - continuarono i
consulenti
di parte - ed abbiamo dati a iosa, per sostenere, senza
ricorrere
alle fantasie ed al possibilismo, la tesi della volontarietà
del Raimondo
di recitare la parte dell’ammalato di mente. La goffaggine
con cui recita la sua parte, la nessuna attendibilità di
essa, il modo
con cui è stato preordinato e portato a termine il delitto,
la linea
difensiva impostasi, la monotonia delle sue frasi, e dei
suoi atteggiamenti
e soprattutto un dato importante che è stato messo in
risalto
dagli stessi periti di ufficio, e che è comune a tutti i
simulatori
o pseudo dementi, e come tale facile a riscontrarsi,
Raimondo si
rifiuta di sottoporsi a visite e colloqui e bisogna
portarcelo con la
forza, tipico dei criminali. Sottoposto a perizia, si
rifiuta ed ha
paura del confronto”.
I due insigni psichiatri così conclusero - confutando le
tesi
dell’accusa - “Pasquale Raimondo attualmente presenta una
sindrome
reattiva facilmente inquadrabile in quella descritta da (*2)
Ganser e che si riscontra
in alcuni detenuti al carcere preventivo”.
“Tale sindrome è insorta in lui dopo il suo internamento al
carcere ed è da mettere in rapporto al desiderio di trovare
una scappatoia alle sue responsabilità ed alle sanzioni conseguenti al delitto.
Il movente che lo spinse ad uccidere va ricercato in un
complesso
di odio e rancore generatosi nel suo animo in quanto si
sentiva
esautorato dal rivale e soppiantato nei favori del padrone
che negli
ultimi tempi lo aveva messo da parte”.
“Le lettere anonime furono il paravento - scrivono ancora i
periti di parte - dietro cui mascherò il suo rancore per il
Montesano,
e gli servirono per giustificare il proprio delitto. Per le
ragioni
sopra esposte il delitto fu premeditato ed eseguito con
piena e
fredda determinazione. E quindi in assoluta capacità di
intendere
e di volere. La volontà di uccidere è ampiamente dimostrata dal
mezzo usato e dalla localizzazione dei colpi che furono
diretti tutti
in parti vitali ed inoltre la freddezza emozionale del
momento si
evidenzia palesemente dal feroce gesto da lui compiuto
quando
fracassò il cranio del Montesano con il calcio del fucile
onde essere
sicuro che l’altro non potesse sopravvivere. Il carattere
violento e
spietato dell’individuo la ferocia del crimine commesso, la
particolare
concezione ed interpretazione dei propri diritti l’assoluto
disprezzo
per la legge e per le autorità costituite, la mancanza
dell’istinto di gregarietà, le caratteristiche biofisiche
comuni e riscontrabili
in tutti i criminali lo fanno considerare individuo
socialmente
pericoloso”.
Il terzo colpo di scena è consistito nella incriminazione
della
Fusaro. Sulle risultanze peritali, infatti, che avevano
stabilito che
le lettere anonime avevano determinato, in un certo modo, il
duplice
delitto, Angelina Fusaro venne accusata di “istigazione a duplice
omicidio” ed arrestata. Le contestarono “per avere mediante
lettere anonime contenenti apprezzamenti diffamatori sulla
condotta
di Maria Raimondo e Giovannina Tessitore dirette a Pasquale
Raimondo provocando nel
medesimo la “slatentizzazione
di una psicosi paranoidea, a tipo di delirio di gelosia che
si andava
man mano che gli anonimi pervenivano vieppiù aggravando,
fino
a diventare probabilmente insanabile pur sapendo che ogni
lettera
prevedeva intenzioni omicide”.
Nelle more pervenne ai giudici dalla Svizzera, una lettera
da
parte del marito della donna, che la accusava apertamente di
essere
una “lesbica” e di essere andata non pura alle nozze. Questa
circostanza
aggravò ancora di più la posizione della donna. Ma i
successivi
interventi di altri periti calligrafici stabilirono che le
lettere
anonime, pervenute al Raimondo, non erano state scritte di
pugno
da Angelina Fusaro; o quantomeno non vi era certezza
assoluta.
Un dubbio, insomma.
A questo punto ci si domandava allora chi fu il demoniaco
autore degli anonimi che istigavano il padre contro la
figlia Anna
Maria (sorella della
ragazza che si era fatta suora) denunziando che
costei fosse stata sedotta da Giuseppe
Fusaro, (fratello di Angelina)
mentre poi facilitava i convegni tra quest’ultimo e Teresa Rai-
mondo (altra sorella di Maria) della quale era l’amante che fece
scappare di casa e successivamente sposandola?
Il quarto colpo di scena venne fuori dalla deposizione di
Maria Raimondo,
interrogata nel Monastero dove aveva preso i
voti.
“Mio padre un giorno mi venne a trovare e mi consegnò un
coltello con il quale mi disse che avrei dovuto uccidere il
Montesano
perché questi aveva sparlato di me. Io per fortuna ero in
compagnia
di una suora che può testimoniare sulla circostanza che lui
minacciò
di uccidermi se non avessi compiuto il delitto…
Poi scoppiò a piangere…
“Io ero e sono vergine ciò è stato anche constatato da una
perizia
del prof. Antonio
Piccoli da Napoli. Mio padre era posseduto dal
Diavolo…
perciò ha commesso il duplice delitto”.
Sulla sua presunta relazione saffica con la Fusaro non volle
parlare. Tutte le indagini propendevano per l’accusa alla Angelina
Fusaro quale autrice delle
lettere anonime e addirittura il Giudice
Istruttore lo scrisse nella sentenza di rinvio a giudizio:
“La Fusaro invaghitasi di Maria
Raimondo con la quale
aveva avuto ed aveva pratiche lesbiche denunziava questa
deficiente
al padre Pasquale Raimondo, facendola maltrattare per attrarla a
sé e poi addebitandole come amante il proprio fratello Giuseppe,
favoriva invece effettivamente costui nei rapporti illeciti
con Teresa”.
Per quanto attiene invece al Raimondo i giudici scrissero
che lui era un pazzo e che conduceva una vita sregolata e
spessoaveva tentato di violentare la figlia Teresa mentre apostrofava con
parole come “puttana” ed altre irripetibili la moglie specie
quando
giaceva con lei.
Dopo due anni il processo in Corte di Assise (Presidente
Giovanni Morfino,
giudice a latere Guido Tavassi; pubblico Ministero,
Gennaro Calabrese;
cancelliere Domenico Aniello e Ufficiale
giudiziario, Giuseppe
Girardi).
Il Pubblico Ministero nella sua requisitoria chiese 10 anni
di manicomio criminale per Pasquale
Raimondo (che era difeso
dall’avvocato Ciro
Maffuccini) e definì l’imputato “un criminale
ed un rozzo mazzonaro… non un assassino ma un pazzo
omicida”.
“Quando la notte - disse tra l’altro il pubblico ministero
nel
corso della sua requisitoria - ebbe l’ultimo convegno
amoroso con
la moglie e dalle innegabili confessioni della stessa sui
consigli e
sulle visite del Gallozzi ebbe l’allucinante ossessiva
rivelazione nella
sua mente ammalata che avesse ragione l’anonimo informatore
a
dirgli che la figlia come la madre si abbandonavano ad orge
con il
Dr. Gallozzi e il guardiano Montesano scambiandosi perfino
senza
ritegno i soggetti degli accoppiamenti. Che la figlia avesse
subito
l’onta di inenarrabili impudicizie fino al punto di avere
conseguito,
ad opera del Gallozzi, la “ricostruzione” apparente della
propria
verginità; che la madre si fosse accoppiata con Gallozzi
mentre ella
si accoppiava con Montesano”.
“Allora sì che si spiega l’evolversi, la conclusione e
l’esplosione
dell’impressionante processo morboso che come l’accesso di
fissazione nel processo di degenerazione dei tessuti trova
il suo momento
generativo nell’ unione del Raimondo con la moglie perché
nella mente sconvolta del soggetto era ferma l’idea
ossessiva che
soltanto in quel momento di abbandono fisico pel compimento
dell’atto fisiologico la moglie Giovannina Tessitore potesse
indursi
a dire la verità”.
“E’ stata l’ultima lettera anonima - ha concluso il Pubblico
Ministero - a far scattare l’dea del delitto. In quella
missiva Raimondo
veniva accusato di rapporti incestuosi con la figlia che si
era fatta suora e poi… vedi il caso, la Angelina Fusaro, prima
che
fosse scoperta come autrice delle lettere anonime, si va a
fare suora
e capita nello stesso convento della novizia sua allieva”.
Insomma, secondo il pubblico ministero, “in fica veritas”,
l’uomo si scopava la moglie per farla parlare… e poi alla
fine dell’atto
sessuale le sputava in faccia! La donna confessava tutto -
anche quello che non era vero - come nella tortura - mentre
aveva
il rapporto sessuale col marito…
La pubblica accusa riservò parole di fuoco per la sarta:
“L’imputato fu prescelto dalla malvagità di Angelina Fusaro
per esercitare la vendetta di una donna viziosa,
spregiudicata, che
aveva creato un laboratorio di sartoria per circondarsi di
fanciulle
delle quali era gelosissima (novella Saffo) che spesse volte
di notte
teneva nel proprio letto e come è ovvio spesso corrompeva
con le
sue pratiche libidinose. L’amore prediletto di questa
autentica maestra
di depravazione e di concupiscenza omosessuale era però Maria
Raimondo - e come fu
accertato - aveva elaborato sapienti anonimi
anche ai danni del proprio fratello a carico del quale
Raimondo
aveva incominciato a concepire i primi suoi folli propositi
di soppressione”.
Angelina Fusaro si
difesa da par sua:
“Io non ho scritto nessuna delle lettere che mi vengono
attri-
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buite, io ero amica di famiglia del Raimondo e la figlia
veniva a cucire
a casa mia. Non ho mai conosciuto Gallozzi. Mio marito nella
lettera
dalla Svizzera dice calunnie, io ero vergine al matrimonio.
Entrai nel
monastero della Orsoline non per seguire la Raimondo ma per
vocazione.
In precedenza avevo chiesto al prete del paese qual era il
monastero
migliore. Non è vero che Angelo Parente mi ha visto imbucare
la lettera lui mi odia ed è un pessimo soggetto”.
Poi scoppiando a piangere: ”Non è vero che me la intendessi
con le mie apprendiste… perché sono una persona seria. Nel
mio matrimonio
ho avuto una bambina che è morta dopo 45 giorni”.
Fu creduta, nonostante che il pubblico ministero, al termine
della sua requisitoria, avesse
chiesto 23 anni di reclusione, la Angelina
Fusaro, difesa dall’avvocato Giuseppe
Garofalo fu assolta
“per non aver commesso il fatto”.
La parte civile era rappresentata dagli avvocati Vittorio e
Michele Verzillo, per la
vedova Montesano e da Enrico Altavilla
per Flavia Bozza moglie del Dr. Gallozzi. In appello subentrò
anche Giovanni Leone. La sarta che aveva preso il velo monacale
finendo nello stesso convento della sua giovane allieva in
appello
fu assolta col dubbio.
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