Il delitto trovava
spiegazione nei rapporti quanto mai tesi esistenti tra zio e nipote da quando quest’ultimo aveva
acquistato i diritti del nonno sul fabbricato ove entrambi abitavano…
La vittima
intendeva addirittura far saltare in aria con mine il fabbricato se lo
zio non fosse andato via.
Il delitto avvenne a Bellona alle 23,45 del 19 marzo del
1956
Bellona
- “Correte alla via Sauro, al numero 178 …. c’è il cadavere di un
uomo” . Questa la segnalazione che
giunse verso le 23,45 del 19 marzo del 1956 ai carabinieri della Stazione di
Vitulazio i quali recatisi sul posto
rinvennero il cadavere di Giovanni Cafaro sul ballatoio del primo
piano dell’edificio. Fin dalle prime indagini si accertò che
Giovanni Cafaro era stato ucciso
mediante colpi di fucile dallo zio Pasquale
Cafaro, il quale subito dopo il
delitto si era dato alla fuga ancora armato. Intanto, il figlio dell’assassino,
Giovanni di anni 13, riferì al Pretore di Capua che quella sera verso le 23 era
stato svegliato dalle grida del cugino Giovanni il quale dalla sua stanza di
letto, attigua a quella ove egli dormiva insieme a suo padre diceva
all’indirizzo di quest’ultimo “mariuolo…sei andato sempre
rubando…scornacchiato…se hai da dire qualcosa esci fuori”. Successivamente il
cugino era uscito dalla camera da letto e si era messo a camminare sul
ballatoio brontolando, e allora suo padre si era alzato e preso il fucile era
uscito anche lui; immediatamente dopo si era sentita l’esplosione di due colpi.
Aggiunse Giovanni Cafaro di Pasquale che
egli non essendo più tornato suo padre, aveva chiuso la porta ma Margherita Cafaro e Giovanna Russo, rispettivamente sorella
e madre della vittima, avevano forzato l’uscio e penetrate nella stanza e lo
avevano percosso ed avevano devastato i mobili. La moglie di Pasquale Cafaro, Celeste Della Monica, dal canto suo, anch’essa
interrogata sia dai carabinieri che dal Pretore, dichiarò che non aveva assistito
all’omicidio e non aveva neppure sentito gli spari giacchè dormiva in un locale
sito in altra ala del fabbricato ove si era trasferita da qualche tempo per
paura di Giovanni Cafaro che pretendeva mandarli via dalla casa ed a tal fine
sovente li ingiuriava e li minacciava ed insieme alla moglie Maria Papa, aveva dato luogo a continui
litigi. Altri testimoni venne ascoltati dagli investigatori: Alfonso Addelio, Antonio e Pasquale Panico,
i quali raccontarono che Giovanni Cafaro di Secondino si era trattenuto con
loro nell’osteria di Amedeo Rossi, ove aveva bevuto qualche bicchiere di vino,
dalle ore 20 alle ore 20 e trenta e poi di nuovo dalle 21,15 alle 22,30 ora in
cui era rincasato.
Dopo poco si erano sentiti sparare due colpi di fucile ed
essi Addelio e Panico, avendo appreso che gli spari erano avvenuti nel
fabbricato del Cafaro, si erano portati colà con il Dr. Giacomo Anziano ma
avevano trovato il loro amico già morto. Maria Papa infine dichiarò al Pretore
che il Pasquale Cafaro odiava suo marito perché temeva che questi – che era il
padrone della casa – volesse mandarlo via; che esse ed il marito avevano subito
diversi furti di denaro e di vari oggetti, tra cui un vecchio giaccone, dei
quali sospettavano autore il Pasquale Cafaro ma si erano astenuti quasi sempre
dal denunziare dette sottrazioni per sfiducia verso i carabinieri; che,
successivamente, nei primi giorni di marzo, il marito era stato tratto in
arresto per il danneggiamento di alcune viti subito dallo zio Carlo Mario Cafaro, essendo stato rinvenuto sul luogo del reato il suo
giaccone rubato – essa in verità riteneva che a tagliare le viti fosse stato il
Pasquale Cafaro e che costui avesse poi lasciato ad arte sul posto il giaccone
sottratto al nipote per fare incolpare quest’ultimo; che diversi litigi erano
avvenuti tra lei, Pasquale Cafaro, e Celeste Della Monica, nella settimana che
precedette l’omicidio, ma gli ultimi due giorni erano trascorsi calmi. Che, infine lunedì 19 suo marito
ritiratosi verso le 23 aveva incominciato a gridare verso di lei per un litigio
avuto da un loro figliuolo con un bambino e indi si era diretto verso la cucina
per cenare ma non appena uscito sul
ballatoio era stato ucciso. Dalle indagini risultò inoltre che circa due anni prima Giovanni Cafaro di
Secondino aveva acquistato da suo nonno Giovanni
Cafaro fu Secondino dei diritti che lo stesso assumeva di vantare sul
fabbricato in via Sauro 178 e che il prezzo della compravendita era stato
pagato soltanto in parte essendosi convenuto che il saldo sarebbe stato versato
dopo che fosse stato sfrattato Pasquale
Cafaro dai locali da lui occupati.
Risultò, inoltre, che i rapporti tra il
Giovanni Cafaro di Secondino e Pasquale Cafaro a causa della situazione
creatasi dopo la compravendita anzidetta erano divenuti cattivi e che vi erano
state reciproche denunzie. Gli inquirenti non diedero alcun credito alla tesi
secondo la quale l’imputato fu costretto a sparare i due colpi di fucile per
difendersi dall’aggressione messa in atto dal nipote. E quindi paventando una
legittima difesa o quantomeno un eccesso colposo di legittima difesa. “Il
delitto – ipotizzarono invece gli inquirenti – trova spiegazione nei rapporti
quanto mai tesi esistenti tra il Pasquale Cafaro e il nipote Giovanni Cafaro da quando quest’ultimo
acquistò i diritti del nonno sul fabbricato ove entrambi abitavano.
L’alienazione di tali diritti da parte del vecchio Giovanni Cafaro (omonimo del
nipote) già di per sè non poteva non suscitare malumore nel Pasquale Cafaro che
naturalmente desiderava un giorno di ereditare, con i fratelli, l’immobile del
padre.
Ma il Pasquale Cafaro si risentì soprattutto
perché il nipote, acquistato il fabbricato, intendeva avere la disponibilità
dei locali da lui occupati. Egli pertanto si oppose energicamente alle mir3e
del nipote e si ostinò a rimanere nell’immobile. Il contrasto di interessi, la
frequenza di contatti determinati dalla convivenza nello stesso fabbricato,
aprirono così un ampio terreno all’attecchimento di reciproci rancori tra zio e nipote e tra le loro
rispettive famiglie e si verificarono
numerosi episodi di minacce e di violenze ora da parte degli uni ora da parte
degli altri. Dapprima su denuncia di Giovanni Cafaro, il Pasquale Cafaro
venne condannato per minacce con arma. Sorse poi la voce che il predetto
Giovanni intendeva addirittura far saltare in aria con mine il fabbricato se lo
zio non fosse andato via. Quindi seguì il danneggiamento di alcune viti in
danno di Carlo Mario Cafaro, fratello del Pasquale. Di tale reato fu subito
sospettato autore il Giovanni Cafaro di Secondino che venne anche tratto in
arresto, essendo stato rinvenuto sul fondo del Carlo Mario un suo giaccone –
sia il denunziato che la moglie Maria Papa subito propalarono la notizia che a
tagliare le viti era stato Pasquale Cafaro il quale rubò il giaccone al nipote
ed eseguito il taglio delle viti lasciò sul posto l’indumento per far
convergere sul nipote l’accusa.
Fonte:
Archivio di Stato di Caserta
Pasquale
Cafaro
venne rinviato al giudizio della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere (Eduardo Cilento, presidente; Guido Tavassi, giudice a latere; Gennaro Calabrese, pubblico ministero)
per rispondere di omicidio volontario in danno di Giovanni Cafaro e nella circostanza le parti civili costituite, in
persona di Maria Papa, Secondino Cafaro e Giovanna Russo, attraverso i propri legali, chiedevano affermarsi la responsabilità dell’imputato con una dura
condanna ed al risarcimento del danno. Il pubblico ministero concludeva per
ritenersi l’imputato colpevole del reato di omicidio e condannarlo alla pena di anni 24 di reclusione con la
recidiva contestata in udienza. La difesa dell’imputato, invece, insisteva
perché lo stesso fosse ritenuto responsabile di “eccesso colposo di legittima
difesa” e che fossero concesse le attenuanti della provocazione e quelle
generiche. Invece, in contrapposizione a
queste tesi “Non vi è dubbio – osservarono i giudici nella loro motivazione –
che il fatto integri gli estremi dell’omicidio volontario. La micidialità dei
colpi esplosi (il fucile era carico a caprioli e la vittima come si è detto
venne attinta a breve distanza) la parte vitalissima del corpo presa di mira
dimostrano ampiamente l’intenzione del Cafaro di uccidere l’avversario”. Il verdetto finale fu ad anni 20 di
reclusione. In grado di appello, il 23 dicembre del 1959, la sentenza venne
riformata e la condanna ridotta a 17 anni con la concessione delle attenuanti
della provocazione. Nel corso dei tre gradi di giudizio furono impegnati gli
avvocati: Vittorio Verzillo, Pompeo Rendina, Giuseppe Garofalo, Mauro
Borgia, Ciro Maffuccini, Francesco Lugnano e Giacinto Mazzuca.
Fonte:
Archivio di Stato di Caserta
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