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martedì 23 aprile 2024

 

 


lunedì 22 aprile 2024

 

IL FILMATO DEI CARABINIERI LA MAZZETTA IN DIRETTA 


Mazzette in Comune in cambio di licenze otto arrestati, 5 indagati
Coinvolti il dirigente dell'Ufficio tecnico, un ex impiegato, imprenditori e professionisti

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Tredici persone indagate per reati contro il comune di Aversa in relazione ad attività urbanistica legata al piano casa regionale che consente l'abbattimento e la ricostruzione con un aumento di volumetria rispetto al preesistente. Volumetria che sarebbe andata ben oltre il 30% consentito dalla normativa regionale. I militari avrebbero accertato anche la consegna di classiche bustarelle contenenti dai cinquecento ai duemila euro. In un video diffuso dalla procura si vede chiaramente uno degli imprenditori che consegna una busta ad un dipendente del comune all'interno della casa comunale.

Quando l'imprenditore se ne va, poi, si vede il dipendente seduto alla sua scrivania, intento a contare i soldi contenuti nella busta.
A conclusione di una complessa attività di indagine diretta dalla Procura della Repubblica di Napoli Nord, i carabinieri del Nucleo Investigativo del Gruppo di Aversa hanno dato esecuzione ad un'ordinanza che ha disposto la misura della custodia cautelare degli arresti domiciliari nei confronti di otto indagati, persone residenti in Aversa e comuni limitrofi.

Risultano indagati altre cinque persone non destinatarie della misura cautelare degli arresti domiciliari. Le indagini hanno consentito di raccogliere gravi indizi di colpevolezza nei confronti delle persone sottoposte alle indagini in ordine alla commissione dei reati che consistono, in pratica, nel presunto aumento a dismisura di volumetria rispetto a quella alla quale gli imprenditori avrebbero avuto diritto.

L'INCHIESTA

Il provvedimento cautelare costituisce l'esito di una più ampia attività investigativa, avviata nel gennaio 2022, relativa a tre casi in particolare, che ha permesso di documentare le condotte illecite poste in essere da imprenditori (il commercialista Alfonso Cecere e il figlio Yari), dipendenti comunali (in particolare il Dirigente dell'Ufficio Tecnico del Comune di Aversa Raffaele Serpico e un geometra all'epoca dei fatti impiegato presso il Settore Edilizia Privata dello stesso Ente, Geppino Minale) e tecnici privati inerenti il rilascio e la gestione di permessi di costruire relativi alla realizzazione di immobili ad uso residenziale nel territorio del Comune di Aversa.

All'epoca furono sottoposti a sequestro, ma con la possibilità di continuare a soggiornarvi per gli acquirenti in buona fede, 19 appartamenti di uno stabile in via Guitmondo, angolo via Linguiti in pieno centro storico di Aversa. In particolare, gli indagati sono ritenuti responsabili a vario titolo di corruzione per atti contrari ai doveri d'ufficio, falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici e soppressione, distruzione e occultamento di atti veri.
Gli altri destinatari dei provvedimenti restrittivi sono tutti e quattro architetti coinvolti a vario titolo nella vicenda: Raffaele Truosolo, Donatello Diana, Alfonso Pisanelli e Anna Cavaliere.

LA RETE
Grazie a rapporti tra tecnici esterni e comunali, gli imprenditori avrebbero superato vari ostacoli per ottenere i titoli utili alla realizzazione di immobili, giungendo anche a far sparire atti presenti sul Comune. È stato documentato, infatti, che un professionista, in qualità di tecnico di parte e in assenza di qualsiasi rapporto lavorativo con il Comune di Aversa, al fine di ottenere in tempi rapidi i permessi di costruire, curava per conto del dirigente dell'Ufficio tecnico comunale tutte le pratiche pendenti presso l'ufficio, così da eliminare il notevole arretrato esistente.

In altri casi, risultando difformità tra la documentazione ufficiale e lo stato dei luoghi, dietro compenso in denaro in favore dei tecnici comunali, venivano sottratti atti ufficiali dall'archivio comunale al fine di alterare l'iter procedurale e arrivare così all'approvazione dei progetti presentati. I titoli autorizzativi, infatti, risultavano rilasciati sulla base di una falsa rappresentazione dei luoghi prima dell'intervento.

Alcuni complessi residenziali, inoltre, sulla base di permessi di costruire illegittimi, sono stati realizzati in assenza di una preventiva lottizzazione ed, in particolare, venivano effettuate opere edili consistenti nella demolizione e ricostruzione di un fabbricato con edificazione di 19 unità di ampia consistenza oltre a locali accessori, in luogo delle poche e preesistenti 6 modeste unità immobiliari originariamente a carattere rurale ed altri modesti manufatti (per lo più baracche), con aggravio del carico urbanistico, producendo notevoli ripercussioni in termini di presenza umana, di domanda di opere, di infrastrutture e di circolazione dei mezzi di trasporto.

FONTE:

sabato 20 aprile 2024

 



Il Problema dei Tre Corpi e il vero omicidio ‘dietro’ la serie: condannato a morte l’avvocato accusato di aver ucciso il creatore avvelenandolo

L’avvocato Xu è stato condannato alla pena di morte il giorno successivo alla messa in onda su Netflix della prima puntata della serie: ecco come stanno le cose

L’avvocato che uccise il produttore della serie Il problema dei tre corpi è stato condannato a morte. Il signor Lin Qi, un miliardario cinese che ebbe l’intuizione di acquisire i diritti del romanzo di Liu Cixin, poi venduti a Netflix, venne ammazzato nel 2020 a 39 anni da un dirigente della sua società di videogiochi.

L’assassino, un rispettato avvocato di nome Xu Yao, aveva affiancato Lin nella trattativa, ma aveva covato per mesi un odio verso Lin che l’ha poi portato ad un congegnato ed efferato delitto per avvelenamento. Pare che Xu si fosse sentito messo da parte del suo presidente Lin e che quindi avesse cercato nei profondi meandri del dark web una soluzione radicale per vendicarsi.

 

 

 

"Se non mi dai i soldi ti lascio", il ricatto affettivo è reato, rischi il carcere: nuova sentenza di Cassazione





Per la Cassazione, minacciare la rottura di una relazione per ottenere denaro è una vera e propria estorsione punita dal Codice Penale. Vediamo cosa ha detto la Corte

Minacciare il partner di lasciarlo se non acconsente alle richieste di versamenti in denaro non è un semplice ricatto affettivo, ma può costituire una vera e propria estorsione, prevista dall’art. 629 del c.p. e punita con la pena base della reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 1.000 a euro 4.000.



L’estorsione consiste, secondo la norma appena citata, nel procurare a sé o ad altri un ingiusto 
profitto con altrui danno mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa.



Esaminiamo insieme i fatti che hanno dato origine alla pronuncia della Suprema Corte, la n. 12633/2024.


A ricorrere in Cassazione è un uomo, 
condannato sia in primo che in secondo grado per i delitti di estorsione (art. 629 c.p., appunto) e atti persecutori (art. 612 bis c.p.), commessi in danno della compagna.



Tra i fatti oggetto dei capi di imputazione vi era anche, per il profilo che qui specificamente affrontiamo, la minaccia di mettere fine alla relazione se la donna non gli avesse versato determinate somme di denaro.





Su cosa era basata la linea difensiva dell’
imputato? Nel ricorso per cassazione, la difesa dell’uomo sosteneva, in primo luogo, l’inutilizzabilità dei messaggi WhatsApp in quanto acquisiti in assenza di un provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria.

Questo motivo di 
impugnazione è stato sconfessato dalla Corte, la quale ha evidenziato che i messaggi WhatsApp non erano stati acquisiti dalla polizia giudiziaria, bensì prodotti direttamente dalla persona offesa, che li aveva allegati alla propria denuncia.

Pertanto, ha ribadito la Cassazione, i messaggi WhatsApp vanno considerati alla stregua di prove documentali ex art. 234 c.p.p.: per questo motivo non si applica né la disciplina sulle intercettazioni né quella sull’acquisizione di corrispondenza (art. 254 c.p.p.).

Ma veniamo all’oggetto specifico della nostra trattazione. Sempre secondo la linea difensiva dell’imputato, infatti, la coppia era solita utilizzare nei rapporti reciproci un linguaggio “forte”: tale tipo di comunicazione tra i due partner doveva considerarsi - sempre secondo la tesi degli avvocati dell’uomo - del tutto consensuale, accettato quindi di buon grado dalla donna.



Anche in questo le argomentazioni della difesa sono state rigettate dalla Suprema Corte. Gli Ermellini, infatti, hanno affermato che anche la presenza di un linguaggio dai toni spinti all’interno del ménage della coppia non legittima certo “le pesanti offese, gli insulti, le minacce di morte e il reiterato disprezzo” costantemente rivolti dall’uomo nei confronti della moglie; moglie che si trovava, al contrario, in una situazione di “prevaricazione e sudditanza psicologica”.

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Sulla base di queste premesse, la Cassazione ha condiviso le motivazioni della sentenza della Corte d’Appello, la quale aveva escluso che i versamenti di denaro richiesti alla donna dal partner fossero il frutto di una libera scelta della vittima.

Invece, tali versamenti dovevano considerarsi effetto di una vera e propria estorsione.

Al riguardo, la Suprema Corte sottolinea che la minaccia può essere esercitata sia con toni apertamente aggressivi, sia in modo più subdolo, in maniera comunque tale da incutere timore e “coartare”, cioè costringere, forzare la volontà della vittima.

Il che può avvenire, precisa la sentenza in esame, anche per mezzo della minaccia di rompere una relazione sentimentale, che assume i contorni di un vero e proprio ricatto: o meglio, in termini giuridici, di una estorsione.