II delitto
accadde nella Frazione “Mandre” in agro di
Santa Maria a Vico in via Bracciale nei pressi del passaggio a
livello della Ferrovia Cancelllo-Benevento
il 30 agosto del 1953
L’IMPRENDITORE ANTONIO PALERMO UCCISE UN SUO CONCORRENTE
VINCENZO
PASCARELLA
Uno schizzo del luogo del delitto |
La vittima era stata alle dipendenze dei Palermo poi vendeva le gazzose prodotte dai Della Rocca diretti concorrenti. L’accusa voleva coinvolgere Clemente Palermo, padre del giovane, quale istigatore e mandante del delitto. Una sorella dell’assassino era fidanzata con il figlio della vittima. Il monopolio per la vendita delle gazzose provocò il delitto.
Il luogo ove era appostato l'assassino |
La mattina del 30 agosto il Pascarella e Antonio Palermo si erano incontrati - con i
rispettivi carretti - in via Artolella
della frazione “Mandre” e come il solito erano venuti a diverbio nel corso del
quale- a dire di Maria
De Lucia, il Pascarella aveva pronunciate parole minacciose all’indirizzo
del giovane che senza rispondere loro aveva guardato minacciosamente. Dopo tale
incidente, mentre il Pascarella si era ancora per un pò trattenuto nella zona -
il Palermo era discesa verso via Bracciale fermandosi vicino al passaggio a
livello in attesa del Pascarella. Poco dopo infatti questi aveva raggiunto al
passaggio a livello che però aveva trovato chiuso; atteso il passaggio del
treno e venduto qualche gazzosa alla casellante Antonietta Petriccione si era a sua volta immesso nella via Bracciale
che dal passaggio a livello - fra due
alti muri - mena al grosso dell’abitato
di Santa Maria a Vico.
Senonché addentrandosi in tale strada era stato, qualche minuto dopo, fatto segno da parte di Antonio Palermo a colpi di arma da fuoco uditi dalla stessa
Petriccione.
Maria
De Lucia
e Antonietta Nuzzo - le quali assumevano di aver notato il Palermo in attesa e di aver assistito al cruento episodio. In
base alle dichiarazioni anche della casellante Petriccione - che escludeva che
altri, prima e dopo il Pascarella, fosse transitato per il passaggio a livello
- alla deposizione di Pasquale De Lucia
- che accorso al rumore nell’unico colpo
percepito aveva scorto il Pascarella “tornar di corsa verso il passaggio a
livello e poi stramazzare a terra morto” – non aveva notato nei pressi alcun
coltello. Dal canto loro i carabinieri indicavano come “compiacenti” le
dichiarazioni di Marco Migliore, il
quale, presentatosi spontaneamente in caserma il pomeriggio dello stesso giorno
del delitto, aveva dichiarato che
transitando per il posto - a bordo della
sua moto - aveva notato il Pascarella
brandire un coltello – mentre il Palermo, rimasto seduto sul suo carretto gli
aveva esploso contro un colpo di pistola.
Per le stesse ragioni i verbalizzanti ritenevano “non rispondente al
vero” ma “frutto di consiglio e suggerimento” quanto aveva loro dichiarato Antonio Palermo che, costituitosi il 2
settembre, aveva affermato che “egli aveva sopportato le ingiurie che senza
motivo gli aveva rivolto il Pascarella col quale in passato non aveva mai avuto
questioni; che oltrepassato il passaggio a livello era stato raggiunto dal
Pascarella che ingiungendogli di fermarsi perché lo doveva uccidere gli si era
avvicinato brandendo un coltello; che egli, allo scopo di intimorirlo e sempre
rimanendo sul carro, aveva esploso in aria un colpo della sua rivoltella 7,65
contro l’avversario che però aveva tanto insistito nel suo atteggiamento
aggressivo da costringerlo a discendere dal carro ed esplodere contro di lui un
secondo colpo”.
Pertanto e poiché la vedova del Pascarella aveva
accennato a minacce di morte fatta per al marito anche dall’altro figlio del Clemente Palermo; poiché il figlio
della vittima Mario, fidanzato per
qualche tempo con la figliola del Palermo, Ornella,
era stato da costei scongiurato in varie lettere di esortare il proprio
genitore a desistere dalla sua attività commerciale ed altro figlio della
vittima aveva assicurato l’appartenenza ai Palermo del coltello repertato;
poiché infine la teste Antonietta Di
Maro aveva rivelato di aver sentito il gestore del ristoratore della
stazione Aurelio De Lucia accennare
discretamente con la moglie, la presenza di Clemente Palermo, nei pressi del luogo del delitto subito dopo di
esso i carabinieri, (malgrado che Aurelio De Lucia avesse negato tale
circostanza) esprimevano il
convincimento che effettivamente istigatore del delitto era stato Clemente
Palermo, uomo violento, scaltro e di
grande influenza sui figli.
Il delitto, al quale non dovevano essere rimasti
estranei altri parenti dello sparatore - fra i quali lo zio Armando Palermo, che subito dopo il
delitto aveva infatti provveduto a porre al sicuro il giovane riappropriandosi
dell’automobile di tal Domenico De Lucia
– era stato (secondo gli inquirenti)
organizzato proprio dal Clemente Palermo
il quale dopo aver cercato in tutti i modi di stroncare la concorrente attività
del Pascarella non aveva esitato neppure
a prestare assistenza al figlio durante la consumazione stessa del delitto essendo
rimasta accertato che il coltello rinvenuto nella “resega” del muro era stato
messo in qual posto proprio da lui - che
dall’alto del muro medesimo aveva cercato nel miglior modo possibile - a causa del sopraggiungere della De Lucia e Della
di Nuzzo di creare al figlio un valido motivo di giustificazione e quindi un
alibi di “legittima difesa”.
I carabinieri – in definitiva – denunciarono Antonio Palermo quale responsabile di
omicidio premeditato in persona di Pascarella ed il padre – resosi nel
frattempo latitante - per concorso in
tale delitto.
Durante la formale istruzione, dopo che Antonio
Palermo aveva sostanzialmente confermato la versione resa all’atto della
costituzione, i carabinieri - dopo aver
trasmesse le dichiarazioni di Assunta Piscitelli, circa un altro
incidente che si sarebbe verificato lo stesso 30 agosto tra il Pascarella e Antonio Palermo
nella frazione Mandria - informavano che
era stato possibile accertare in modo inconfutabile a seguito delle rivelazioni
di Raffaele Savinelli che a
spalleggiare Antonio Palermo durante
la commissione del delitto era stato il di lui genitore e inoltravano le
dichiarazioni del Savinelli (il quale aveva sostenuto che dal suo terreno, in via Bracciale aveva scorto Clemente Palermo che dall’alto
del muro - sito all’altro lato della
strada - aveva dato, dopo gli spari, consigliato al figlio di porre un coltello
accanto al cadavere del Pascarella e quindi di fuggire e farsi i fatti suoi).
Inoltravano i militi della Benemerita anche le dichiarazioni di Anna Valentino e Carmela Nuzzo ( questa ultima aveva affermato di aver notato -
circa dieci minuti prima di aver appreso del delitto - Clemente
Palermo prevenire con il suo
furgoncino dal viale antistante la stazione).
Con
altra nota i verbalizzanti trasmettevano le dichiarazioni di Elena Salvatore la quale aveva assunto
d’aver assistito - transitando proprio
per Via Bracciale - alla uccisione del Pascarella e di aver inteso, dopo gli
spari, una voce di uomo che diceva allo sparatore: “L’hai fatto? Se non l’ hai
fatto vengo io”. Gli investigatori
dell’Arma riferivano ancora che il teste Savinelli aveva indicato Paolo Manna
quale persona che avrebbe potuto confermare la sua versione dei fatti e
segnalavano agli inquirenti che “vox
populi” in paese circolava la voce secondo la quale il Savinelli aveva
deposto il falso a causa di antichi rancori verso il Clemente Palermo per
motivi di contrasti e di interessi. Nel
corso della istruzione venivano acquisite agli atti cinque lettere scritte da Ornella Palermo a Mario Pascarella suo
fidanzato per un tempo e veniva inoltre accertato
che la morte del Vincenzo Pascarella era
stata cagionata da “un colpo di arma da fuoco” che - provocate le due ferite di
striscio al terzo inferiore del braccio sinistro - era poi
penetrato fra il sesto e settimo spazio intercostale sinistro perforando quindi
cuore e polmoni e fermandosi alla parte centrale dello sterno.
Fonte: Archivio di Stato di Caserta
La condanna fu ad anni
24 per Antonio Palermo e assoluzione per
Clemente Palermo ( che prima
dell’appello morì). In secondo grado la condanna - con la
concessione delle attenuanti generiche - fu ridotta ad anni 14
Sulle
conformi richieste del pubblico ministero il giudice istruttore, con sentenza
del 31 luglio del 1954, dichiarato estinte per amnistia le contravvenzioni
ascritte ad Antonio Palermo in
ordine all’arma, rinviava il predetto Palermo e il padre Clemente Palermo a giudizio
della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere, per rispondere di concorso
nell’omicidio. Innanzi ai giudici venne rievocato il delitto e gli antefatti. In
particolare sullo stato dei rapporti intercorsi, fin dal gennaio di quell’anno, fra la vittima il Clemente
Palermo e i figli di costui Antonio e
Vincenzo. Il Pascarella dopo aver atteso per circa cinque anni alla
vendita ambulante delle gassose per conto di Clemente Palermo - titolare
di una fabbrica di tale prodotto in Santa Maria a Vico - nel gennaio di quello hanno abbandonò tale
attività che gli permetteva di sfamare la numerosa sua famiglia - a causa del
mancato aumento delle percentuali pattuite e della mancata corresponsione di
certi assegni familiari, percepiti poi parzialmente (solo a seguito dell’intervento
degli organi sindacali). Questo suo atteggiamento (e più ancora essergli egli
decisa ad acquistare delle gassose della fabbrica di Alfonso Della Rocca da San Felice a cancello e da rivendere per
proprio conto nella stessa zona di Santa Maria a Vico fino ad allora preclusa
ad altri commercianti) gli attirarono addosso l’ira di Clemente Palermo che scorgeva in lui un concorrente maggiormente
pericoloso per la conoscenza che della piazza aveva il Pascarella a causa
proprio del servizio prestato per tanti anni alle sue dipendenze. Tra l’altro
il Clemente Palermo, indicato dai carabinieri come persone fortemente temuto
sul posto perché ritenuto esponente della malavita locale, non esitò a
trascendere ad atti di violenza e di minaccia nei riguardi di quanti
continuando a rifornirsi dal Pascarella erano divenuti clienti personali di costui;
nè tralasciò di indurre lo stesso Della Rocca, che contrariamente ad altri produttori
dei paesi limitrofi pare non avesse avuto timore di fornire il Pascarella, a
non cedere le sue gazzosa costui, dichiarandosi perfino disposto a versare un
compenso di tre o quattrocento mila lire.
L'AVV. FRANCESCO LUGNANO |
Frequenti – dissero i giudici nella
motivazione della sentenza di condanna - divennero pure le minacce ed i
dispetti ai danni del povero Pascarella principalmente ad opera di uno dei
figli del Palermo cioè dell’Antonio il quale per aver sostituito nel giro di
distribuzione della merce il Pascarella era quelli che più frequente occasione
aveva di incontrarlo proprio durante la applicazione della sua concorrente
attività commerciale. Intanto vi era da registrare l’atteggiamento della vedova
del Pascarella, Antonietta Marciano,
la qual anche in udienza aveva
confermato alle esplicite minacce di
morte che erano state rivolte al marito,
anche qualche giorno prima del delitto, non solo dall’altro figlio del Palermo
di nome Vincenzo ma dallo stesso Clemente Palermo (la circostanza però non fu
ritenuta vera in quanto sia lei che il marito nell’esposto ai carabinieri non
avevano fatto cenno alla minacce del padre, circostanza confermata nel corso
del dibattimento dal maresciallo dei carabinieri Federico Ruffier). “Non può comunque negarsi – affermarono ancora i
giudici - che uno stato di notevole
dimensione si era creato tra la famiglia Palermo ed il Pascarella dalle lettere che la figliola del Palermo, Ornella la quale scriveva - proprio in quel periodo di tempo al figlio
del Pascarella, Mario (che con lei forse di nascosto dei familiari, amoreggiava
da qualche anno) e nelle quali la giovinetta “esprimeva addirittura la sua
paura per una possibile reazione del vecchio Pascarella alle provocazioni dei
propri familiari e per una di lui ulteriore permanenza in paese a contatto
continuo dei propri familiari che ella non esitava a qualificare “degli animali”. La Corte di Assise
(Presidente Giovanni Morfino,
giudice a latere, Giuseppe D’Avanzo;
pubblico ministero, Nicola Damiani) emise
la condanna, con la esclusione dell’aggravante
della premeditazione, alla pena di anni 24 di reclusione mentre assolse Clemente Palermo dal concorso in
omicidio “per insufficienza di prove”. Nei tre
gradi di giudizio furono impegnati gli avvocati: Ciro Maffuccini, Alfredo De Marsico, Pompeo Rendina, Vittorio e Michele Verzillo, Alberto Martucci e Francesco Lugnano.
Fonte: Archivio di Stato di Caserta
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