GIOVANNI PANARELLO UCCISE LA FIDANZATA
NICOLINA PICCIRILLO
CON UN COLPO DI
PISTOLA
Il delitto accadde alle ore 18 nella contrada “Pioppitelli” in agro di Caianello
il 4 settembre del 1953
Marzanello - Con
il primo fonogramma al Pretore di Teano, il 5 settembre del 1953, i carabinieri della stazione di Vairano Scalo
informavano che verso le 18:00 del giorno precedente, nella contrada “Pioppitelli”, in agro di Caianello,
il contadino Giovanni Panarello, di anni 28, aveva ucciso con un colpo di
pistola la fidanzata Nicolina Piccirillo
di anni 21 per cause non ancora precisate e che l’omicida si era reso
irreperibile. Con un rapporto successivo del 10 settembre del 1953, i
carabinieri riferivano allo stesso
Pretore che, poiché si era andata delineando l’ipotesi che il movente del
delitto avesse trovato origine in una “forma morbosa di gelosia”, determinata
da un “complesso di inferiorità” di cui si sentiva affetto il Panariello,
avevano interrogato diversi individui e che le dichiarazioni di alcuni di
costoro sul carattere del Panarello avevano giovato a determinare il
convincimento che l’assassinio era stato commesso per “gelosia”. Il giovane
assassino, interrogato, in un primo
tempo tentò di attribuire il fatto ad una disgrazia, ma successivamente si decise a confessare la
sua “verità” Narrò che da molti mesi la sua mente era “ammalata di gelosia”,
riferendo, in merito, che nel mese di aprile del 1953 la Piccirillo, ammalata,
gli aveva espresso il rammarico per aver saputo che un di lui cugino, Quirino Panarello, aveva proibito alla
propria fidanzata, Carmela Fera di
recarsi a farle visita per timore di contagio e che, invece, ciò non era vero
per cui egli aveva dedotto che la storiella narratagli dalla fidanzata fosse un pretesto qualsiasi
per giustificare lo strano comportamento nei suoi riguardi da parte di lei che
gli aveva dato la netta sensazione di non corrispondere al suo affetto con
uguale misura. Sempre a proposito della gelosia, segnalò che, nel corso di un
colloquio inteso a chiarire quell’episodio, egli, preso dalla gelosia, aveva
estratto un coltello e con lo stesso minacciata la fidanzata, senza, peraltro,
tradurre in atto il suo gesto di cui, poi, si era pentito chiedendole scusa, e
che, ciò nonostante, in seguito la Piccirillo gli aveva dato la sensazione di
non aver dimenticato quell’azione e, pertanto, egli aveva provato sempre
l’impressione che di tanto in tanto ella nei suoi discorsi facesse affiorare il
suo rincrescimento per la minaccia subita. Ancora fece notare che, avendo la madre della
Piccirillo detto che la figlia “non lo
sposava per motivi d’interesse”, egli aveva pensato fosse quello il motivo
vero e la giustificazione data e non richiesta fosse la prova lampante e che in tal modo, si era fatta strada nel
suo animo la convinzione che nel cuore della fidanzata si fosse intromesso un
altro uomo e, perciò, aveva carpito l’occasione per esternare il suo sospetto
alla fidanzata che, però, aveva taciuto onde egli aveva interpretato “il silenzio” come una “tacita” conferma. Inoltre riferì che
una volta, avendo detto la fidanzata “che
sabato disgraziato”, aveva creduto come le ragazze fosse infastidita dalla
sua presenza, che il 23 agosto 1953 egli, invitato a pranzo dalla fidanzata, aveva
notato che costei non aveva mangiato adducendo di sentirsi male, e ciò aveva
pensato, invece, fosse una logica conseguenza derivante dalla sua presenza non
gradita, che nel pomeriggio di detto giorno – avendo la Piccirillo esternato il
desiderio di farsi fotografare - egli
aveva proposto di fotografarsi insieme, avendone un rifiuto che aveva trovato
strano e di cui si era adombrato maggiormente quando ella, per eludere la
proposta, aveva rinunciato fotografarsi, che nello stesso pomeriggio avesse
visto insieme con la fidanzata un film e che, avendo ritenuto raffigurasse lei
e se stesso, rimasto scosso a tal punto da parlarne alla ragazza la quale,
però, non aveva saputo rassicurarlo.
Infine rese noto che successivamente,
stando con la Piccirillo, aveva visto un giovane in Lambretta - (La Lambretta era uno scooter italiano
prodotto dalla industria meccanica Innocenti di Milano, nel quartiere Lambrate,
dal 1947 al 1972. Il nome “Lambretta” deriva dal fiume Lambro, che scorre nella
zona in cui sorgevano proprio gli stabilimenti di produzione. N.d.R) - passare vicino a loro e, domanda, saputo che
costui intendeva corteggiare una cugina della fidanzata che egli, invece, aveva
avuto la sensazione che quel giovane corteggiasse la Nicolina ed, inoltre, che
un giorno, avendo avuto dalla fidanzata una lettera con preghiera di imbucarla,
l’aveva aperta e ne aveva letto il contenuto che non era affatto lusinghiero
per il destinatario, e, comunque, aveva ritenuto diretto a lui onde aveva
pensato che la ragazza, supponendo che egli avesse aperto la lettera, aveva
studiato quell’espediente per fargli capire che non l’amava
incondizionatamente. Riferendosi al
delitto, disse che aveva deciso di farla finita una volta per sempre con una
donna la quale gli aveva dato “l’esatta
impressione di non amarlo”, che nel giorno del delitto la discussione era
stata imperniata sulla chiarificazione di quella lettera, che, a proposito
dell’apertura di essa, la Piccirillo non
aveva dimostrato sorpresa e nulla aveva detto, e nel viaggio di ritorno
verso l’abitazione della ragazza la discussione era divenuta animata, che,
continuando la discussione, egli aveva detto alla fidanzata come “non
gli garbasse il suo modo di comportarsi, che, avendo lei risposto di “non aver
paura di lui” e, quindi, con una frase che lo “aveva toccato nel suo amor
proprio”, aveva estratto la pistola e
sparato.
Tale interrogatorio il Panarello confermò al Pretore di Teano al quale
precisò: “Dopo tale fatto (la minaccia
col coltello) i nostri rapporti peggiorarono giacché lei si mostrava sempre più
fredda nei miei riguardi ed alle mie rimostranze opponeva sempre un ostinato
silenzio che ritenevo come indice di mancanza di affetto. In più di una
occasione la Piccirillo, per quanto velatamente, dimostrava di essere ancora e
sempre risentita per la minaccia fattale col coltello. Cominciai a convincermi
che ella effettivamente non
corrispondesse al mio affetto con eguale intensità … Io non prestai fede a ciò
(che il giovane in Lambretta corteggiasse
una cugina della fidanzata) e le dissi che ero convinto che quel giovane
non era andato per Anna (la cugina) ma
per lei, al che la Piccirillo non oppose risposta alcuna ed io mi convinsi di
più che la verità fosse quella da me pensata…La trama del film mi sembrò riproducesse
esattamente il mio stato d’animo e la situazione di incertezza in cui si
svolgeva il nostro amore: ciò dissi alla Piccirillo e, come al solito, si
chiuse in un mutismo…Il giorno del delitto mi recai sul fondo ove la Piccirillo
pascolava. Parlammo del nostro prossimo matrimonio. Le ricordai che il giorno
prima, essendo invitato a casa sua, lei non aveva toccato cibo col pretesto di
non sentirsi bene, mentre io attribuivo ciò a mancanza di affetto verso di me e
lei rispose che non aveva voluto mangiare perché non si sentiva bene. Abbiamo
allora preso il cammino per andare a casa di lei e allora le dissi che la lettera era
effettivamente diretta a me, che lei
l’aveva scritta, che lei sapeva che io,
sospettando, l’avrei letta ed era stata da me letta ed avevo compreso che il
film, che a me aveva fatto tanta penosa impressione, a lei era sembrato
bellissimo, ciò che significava che i nostri sentimenti erano agli antipodi e
che lei effettivamente non mi voleva bene…”
Ma all’interrogatorio reso il
5 ottobre 1953 al Giudice Istruttore del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere,
il Panarello, dopo aver detto di non aver avuto rapporti intimi con la
fidanzata e di non aver avuto intenzione di ucciderla, prospettò ancora la tesi
della accidentalità del fatto, sostenendo che il colpo era partito
accidentalmente mentre teneva la pistola in mano e la mostrava alla
ragazza e che ciò aveva pure fatto
presente ai carabinieri e al Pretore.
Anche in altro interrogatorio giudiziario - datato 30 novembre del 1953 - il Panarello
sostenne la tesi della accidentalità del fatto, dicendo a seguito di
contestazioni: “Mentre camminavo la
Piccirillo, alla mia domanda “perché eri così fredda e disturbata” confermò il
suo proposito di lasciarmi dicendo che le carte che avevamo cacciato per il
matrimonio si potevano pure stracciare. A ciò cavai di tasca la pistola unicamente per spaventarla e per farla
desistere dal suo proposito. Un colpo partì accidentalmente attingendola. Io
non ho deflorato la Piccirillo perché, se così fosse stato, non mi sarei permesso di ammazzarla”. Dal canto loro, i testimoni interrogati
dai carabinieri e poi escussi
dall’Istruttore fornirono notizie su circostanze del delitto e sui
precedenti del Panarello. Giovanna
Piccirillo che si trovava con la Nicolina
ed il Panarello la sera del delitto, disse di non aver sentito, il
discorso tra l’uno e l’altra, di aver notato che lui appariva turbato in volto,
di aver sentito, ad un certo momento lei dire al Panarello di riprendersi la
bicicletta e lui rispondere: “Per forza
mi devo tornare?”; di aver notato alcuni istanti di silenzio e dopo udito
un colpo di pistola. Al giudice istruttore nel confermare tutto ciò segnalo
inoltre che lo imputato “è un tipo di
carattere poco espansivo”. Non diversamente sul conto del Panarello si
espresse Giovannina Fera che ancora riferì di avere verso le
18:00, 18:30 del 4 settembre udito un
colpo di pistola e, poco dopo, visto il Panarello col viso sconvolto. Rosa Ruizzo - che vide i fidanzati poco minuti prima del delitto -
segnalò che “lui era turbato in
volto” che “pure la ragazza era un pò turbata”. Dal canto suo Sabatino Cerchia dichiarò che il
Panarello “era di carattere taciturno”
e “talvolta strano” ed inoltre era
perseguitato da una sorda ed insana gelosia che gli rodeva continuamente il
cervello, soggiungendo, al riguardo che il
26 luglio il Panarello si era lamentato con lui della fidanzata in
quanto non “era puntuale all’appuntamento” ed aveva detto che ciò gli dava
“l’impressione che avesse un altro fidanzato. Precisò poi al magistrato che in
un colloquio con lui il Panarello gli aveva domandato vagamente se la
Piccirillo avessi un altro fidanzato, mostrandosi, però, di non essere convinto
di tale eventualità, e soggiunse che il Panarello era un tipo “chiuso” e “taciturno”. Carmela Fera
depose di non essere andata a visitare Nicolina
Piccirillo perché occupata nei lavori e non perché il suo fidanzato, Quirino Panarello glielo avesse
proibito. Giovanni Zamba rese noto
di non aver ricevuto dalla sua fidanzata, Anna
Panarello una lettera in cui gli descrivesse la trama di un film ed
esprimesse il suo giudizio sul film
medesimo.
Orazio Gallo, maresciallo
dei carabinieri segnalò che il Panarello era di carattere “taciturno”, quasi un misantropo e non facile a fare delle
confidenze. Ugualmente si espresse Anna
Piccirillo che, inoltre, dissi di avere, verso la fine dell’agosto 1953,
scritto al fidanzato Giovanni Zampa,
militare ad Ariano Irpino, una lettera in cui diceva che il noto film “Core furastiero” era bello e non
giunta a destinazione, di avere, verso la fine di maggio detto anno,
visto la “Nicolina Piccirillo a terra
ed il Panarello su di lei impugnando un coltello con la lama rivolto verso il
suo viso” e di averle detto la Piccirillo in ordine a tale fatto, che il
Panarello le aveva fatto “la scenata” perché gli era giunto all’orecchio che ella
lo aveva chiamato “scemo”, laddove,
in altro interrogatorio, ebbe a prospettare il fatto che il Panarello - in quel
giorno - cercasse di possedere la
fidanzata, soggiungendo, però, che costei mai le aveva confidato di essere stata deflorata dal
Panarello: circostanza, questa, pure
resa nota dalla sorella della Piccirillo a nome Amelia che, inoltre, precisò che mai la Nicolina le aveva detto di
essere stata oggetto di violenza da parte del Panarello allo scopo di
congiungersi carnalmente. Trovandosi nelle carceri giudiziarie di Santa Maria
Capua Vetere ( il vecchio convento
francescano di Piazza San Francesco, definito da molti “la fossa dei leoni”, un
vero e proprio labirinto di sevizie e di torture) il 18 giugno del 1955, tentò
il suicidio facendo “harakiri” (la forma di suicidio rituale a cui ricorrevano
i samurai giapponesi caduti in disgrazia o condannati a morte) e si produsse
numerose ferite da taglio alla regione addominale “perché era dispiaciuto del
mancato matrimonio con la Nicolina”.
La condanna fu a 18 anni di reclusione. In appello gli fu
riconosciuta la seminfermità mentale e la pena fu di 14 anni di manicomio
criminale
Gli avvocati di parte civile,
già nella fase istruttoria, denunciarono con istanze dirette
prima al Giudice Istruttore Mario
Mancuso, e poi al suo successore Ugo Del Matto, “la brutalità e crudeltà
del proditorio delitto”. Ma con gli interrogatori resi in più riprese ai
carabinieri di Piedimonte d’Alife e poi al Giudice Istruttore, il dissenso tra
i difensori dell’imputato e quelli di parte civile si acuì. “Il gesto criminale
– scrissero per la parte civile – consumato da Giovanni Panarello è di una ferocia senza pari”. Il perito della
consulenza tecnica Dr. Giuseppe Auriemma
di Santa Maria Capua Vetere dopo aver effettuato gli esami autoptici conclamò
che la ragazza ”era stata deflorata da tempo anche se non era adusa al coito”. Un delitto – concluse la sentenza di rinvio a
giudizio – “in preda a foia carnale, voleva prendersi quella sera la rivalsa
carnale di quello che s’era preso col coltello e cacciò la pistola”. In
dibattimento il Panarello si comportò da vero “borderline”. Punzecchiato dalle
domande del Presidente a stento rispose con monosillabe ed a voce bassa. “Insisto nel dire che non ho sparato e non
so neppure se la Nicolina è morta. Io sto bene e non voglio andare in
manicomio”. Ci fu poi la sfilata dei
testimoni: Antonio De Simone, Giovanna
Fera, Genoveffa Fera, Pasqualina Fera, tutti da Caianiello; Rosa Ruizzo, da Vairano Patenora; Pasquale Guadagnuolo, da Teano e Francesco Panarello, Carmela Fera e Sabatino Cerchia, da Marzanello. La Corte di Assise di Santa
Maria Capua Vetere (Presidente, Giovanni
Morfino; giudice a latere relatore, Renato
Mastrocinque; pubblico ministero, Nicola
Damiani) con sentenza del 20 giugno 1955, dopo aver negato la perizia
psichiatrica, invocata dai suoi difensori con apposita ordinanza: “Ritenuto che
nessuno dei certificati esibiti attesta malattie dell’imputato che possono far
desumere una sua menomata capacità mentale riguardando essi certificati solo
dei larghi parenti dell’imputato medesimo il cui genitore soltanto risulta
essere stato affetto da semplici attacchi nervosi e solo nel luglio 1954.
Ritenuto ancora che i lunghi e circostanziati interrogatori resi in istruttoria
dall’imputato tendenti anzi a dimostrare la mera accidentalità del fatto, denunziano
nell’imputato medesimo un odierno atteggiamento di simulazione che pertanto non
sussistono i gravi e fondati indizi che consigliano una perizia psichiatrica”.
La sentenza fu di condanna per Giovanni
Panarello per omicidio volontario in danno di Nicolina Piccirillo, con la concessione delle sole attenuanti
generiche, alla pena di anni 18 di reclusione. Come spesso accade in ogni
processo la sentenza venne appellata -
sia dal Procuratore Generale il cui ufficio aveva chiesto l’ergastolo - “La
Corte avrebbe dovuto dichiarare Giovanni Panarello colpevole di omicidio
aggravato dal motivo abietto e non avrebbe dovuto applicargli le attenuanti
generiche”; e sia dal difensore Avv. Ciro Maffuccini: “La Corte avrebbe dovuto concedere la
invocata perizia psichiatrica. Tale richiesta era ed è legittimata dalla
imponente documentazione esibita, da cui risulta l’esistenza di tare ereditarie
profonde e molteplici nella famiglia del Panarello”. Il 4 luglio del 1957, dopo
due anni dal primo processo, in sede di appello, Giovanni Panarello fu
trasferito dal Carcere di Poggioreale al Manicomio Giudiziario per essere
sottoposto a perizia psichiatrica affidata al Prof. Giulio Cremona, Direttore del Manicomio Giudiziario di Napoli e al
Dott. Giovanni Nonis, primario
presso lo stesso istituto. La risposta ai quesiti fu: “Giovanni Panarello, al
momento del fatto di cui è processo, si trovava, per infermità, in condizioni
di mente tali da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di
intendere e di volere. Egli è persona socialmente pericolosa”. La Corte di Assise di Appello (Presidente, Emanuele Montefusco; giudice a latere, Mario
Sabelli; Procuratore Generale, Luigi De Magistris (il nonno
dell’attuale sindaco di Napoli)
concesse all’imputato la “diminuente della seminfermità mentale” e la
condanna fu fissata in anni 14. Nei tre gradi di giudizio furono impegnati: On.
Avv. Stefano Riccio, Avv. Salvatore Fusco, Avv. Giuseppe
Fusco, On. Avv. Prof. Alfredo De
Marsico, Avv. Ciro Maffuccini e
Avv. Federico De Pandis.
Fonte:
Archivio di Stato di Caserta
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