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domenica 2 settembre 2012

OTTANTA ANNI DI CRONACA NERA



Accadde il 16 settembre del 1956

ASSASSINATO NEI PRESSI DI CAPUA A COLPI DI PISTOLA  IL PROFESSORE FRANCESCO SCIALDONE DI VITULAZIO – AGGREDITO PER  VENDETTA  E  SIMULATA UNA RAPINA

 Un grave delitto è stato consumato  nella notte sulle, strada fra Vitulazio e Capua, ove è stato ucciso a rivoltellate il ventottenne prof. Francesco Scialdone, ordinario di matematica e fisica presso il Liceo di Piedimonte d’Alife.  Il giovane professore, nato a Vitulazio ed ivi  residente, ritornava da Piedimonte d'Alife e in motocicletta si  stava recando dalla fidanzata,  domiciliata ad Agnena, una frazione di Vitulazio.  Il fatto è stato così ricostruito. Il Prof.  Scialdone,  partiva da Piedimonte alle ore 18 e da quel momento non si aveva di lui più alcuna notizia, finché nella notte, colpito da proiettili, giungeva, sulla motocicletta da lui stesso guidata, con uno sforzo di volontà, dinanzi alla Clinica chirurgica “Villa Fiorita” di Capua ove suonava il claxon e si abbatteva sanguinante sul manubrio del motomezzo.
     Mentre i medici e gli infermieri lo sollevavano e gli apprestavano i primi soccorsi d'urgenza, fra cui una trasfusione di plasma,  il giovane insegnante  raccontò le modalità della sua aggressione e nel frattempo erano giunti presso il centro clinico i fratelli Saverio e Mario ed il cugino omonimo Francesco Scialdone noto chirurgo.   
     Siapure in modo frammentario il moribondo narrò che mentre in motocicletta tornava da una visita alla sua fidanzata  in un viottolo di Agnena, mentre ritornava dalla casa della fidanzata dirigendosi alla sua abitazione, nel centro di Vitulazio, aveva trovato la via sbarrata da due sconosciuti, il  cui viso non si vedeva dato il  buio. Essi, impugnando delle rivoltelle, lo avevano costretto a fermarsi e lo avevano depredato dell'orologio e del portafogli. Mentre ciò avveniva, improvvisamente era sopraggiunta un'auto. Poichè aveva i fari accesi, il violento fàscio di luce investiva in pieno i due rapinatori. L'auto, però, nonostante che coloro che erano a  bordo avessero visto quanto stava accadendo, proseguiva, anzi aumentava la velocità e si disperdeva nel buio della notte.
     E sulla solitaria strada di campagna rimaneva il professore sotto la minaccia delle pistole,  infatti i due malviventi, dopo un rapido e concitato  confabulare tra di loro  e quando il  professore aveva già messo in moto il mezzo, aprivano il fuoco, evidentemente spinti dalla preoccupazione che, essendo ormai stati riconosciuti, meglio era sopprimere il derubato, dimenticando, però, che a riconoscerli vi erano stati anche i passeggeri dell'automobile dileguatasi.     
     Poi il professore accennava alla modalità con cui era giunto alla clinica. Facendosi forza, nonostante lo strazio dei colpi e il sangue che colava abbondante dalle ferite, il professore era riuscito  a compiere una trentina di chilometri fino a Capua,  fuori la clinica, ove si  era   abbattuto  esausto. Trasportato all'alba da Capua a Napoli all'ospedale dei “Pellegrini”, i chirurghi  gli avevano riscontrato  tre ferite: la prima al viso, la seconda al torace, la terza all'addome. Tutti e tre i  proiettili avevano trapassato la parte, causando lesioni al polmone e al fegato. Nonostante l'intervento, poco dopo il  professore era morto.  La Questura e il  Comando del Gruppo carabinieri di Caserta  iniziarono, fin dalla notte, febbrili indagini per la cattura dei criminali.
     Sembra però, dalle ultime informazioni, che la rapina sia stata semplicemente una mascheratura del delitto, il cui vero movente sarebbe, invece, la vendetta, pare causata da motivi di gelosia.
     A qual punto sembrava che i carabinieri avevano  già identificato gli assassini tenendone  come è  ovvio, segreti i nomi e le conseguenti   indagini avrebbero permesso di ricostruire il tragico agguato con sufficiente precisione. Primo di quattro figli di un commerciante Francesco Scialdone,  aveva conseguito da anni laurea e abilitazione, ma solo quest'anno aveva ottenuto la cattedra di matematica e fisica nel Liceo di Piedimonte d'Alife e  sì era recato dal preside di quell'istituto per la presentazione dì rito.
     Verso l’una era giunto in motoleggera ad Agnena, una località periferica del comune di Vitulazio e si trattenne nella fattoria “Pìglìalarma” , dove la fidanzata Maria Aurilio e i familiari avevano organizzato una festicciola intima per solennizzare l'avvenimento che avrebbe accelerato le nozze.
      La sera dopo le 20, salutati gli ospiti il  professore  si era avviato verso Vitulazio, dove abitava.  Ad un certo punto si vide la via sbarrata da due giovani che lo aspettavano fermi presso la loro motocicletta. I due, dopo avergli puntato contro le pistole, lo costrinsero a scendere dal sellino e ad avviarsi verso il limite di un sentiero, ingiungendogli di dare il portafogli e l'orologio. Sembra dalle dichiarazioni poi fatte dal morente - che in quel momento sopravvenisse un'auto e che il fascio dei fari centrasse la scena. Poi la macchina accelerò e sparì. Allontanatasi l'auto, i due spararono sull'insegnante crivellandolo di colpi e lasciandolo a terra in un mare di sangue.
     Il prof. Scialdone ebbe la forza di risalire sulla sua motoleggera e tentò l'inseguimento. Le abbondanti tracce di sangue scoperte  nel corso delle indagini nella polvere dicono che egli fece un lungo giro. In un secondo tempo, sentendosi venir meno le forze, il giovane rinunciò ad inseguire gli assassini e si diresse verso Capua, alla clinica chirurgica Villa Fiorita. Quando arrivò al cancello suonò il clacson. Gli infermieri lo trasportarono subito in sala operatoria. Poiché il primo esame rivelò il suo stato, i medici si limitarono a una immediata trasfusione. Data la gravità dell'intervento, essi pensarono di condurlo subito a Napoli all'Ospedale degli Incurabili. E là, nei brevi momenti in cui sembrò riprendere le forze, il professore narrò i fatti esprimendo i suoi dubbi sul movente della rapina; poi la perdita della coscienza gli impedì di proseguire.
      Spirò, come detto, mentre lo operavano. I tre proiettili che lo avevano colpito, sparati con una pistola calibro nove, avevano forato un polmone e trapassato il fegato.  Gli accertamenti dei carabinieri permisero, inoltre,  di stabilire che lo Scialdone aveva ragione dubitando del movente del crimine. La rapina era stata un pretesto con cui gli assassini avevano tentato dì sviare le indagini. Essi avevano persino lasciato sul luogo del delitto la cinghietta spezzata del cronometro. L'unica causa invece è stata la vendetta, Circa un mese prima dell’agguato   il giovane professore ritornando dalla festa di S. Filomena,  svoltasi a Bellona,  aveva perduto il controllo della guida precipitando in una cunetta in conseguenza di un'errata manovra di una ”1100” che lo aveva accecato con i fari. Da questo incidente era nato sulla via un diverbio e, offeso da uno dei due che erano nell'auto, egli aveva reagito schiaffeggiandolo. Al che i due gli dissero che per quella sera con tutto il traffico che c'era sulla  “nazionale” la partita era rinviata ma che essi al momento giusto l'avrebbero saldata. “E ricordati -  aggiunsero -  che siamo di Grazzanise”. Grazzanise è tra i pascoli bradi del Casertano, zona nota da secoli per la sua sanguinosa delinquenza.
     Nella lunga dichiarazione fatta alla caserma del carabinieri di Vitalazio, la fidanzata del professore ucciso rivelò altri decisivi particolari. Da varie sere, disse, gli assassini avevano organizzato il loro piano e attendevano la vittima. Per non sbagliare fermarono alcune persone in motoleggera con il pretesto di chiedere a volte della benzina, a volte un ferro. Una sera sì imbatterono nel suo fidanzato ma il sopraggiungere di due auto gli fece rinviare il colpo. Fu allora che il professore le disse d'aver notato una motocicletta dipinta in rosso e le dette anche il numero della targa. “Se mi accadesse qualcosa – disse - sai chi sono i responsabili”.
     In base a questi precisi elementi, la cattura degli assassini era  ritenuta imminente.  Ed infatti nei giorni successivi gli assassini del professore  furono arrestati mentre assistevano al  Quiz televisivo “Lascia o Raddoppia” condotto di Mike Bongiorno in un bar di Grazzanise.   Erano due balordi,  poco inclini ad essere  braccianti agricoli: Nicola Petrella, di 20 anni, residente a Grazzanise, e Giuseppe Gravante, di 17, da Castelvolturno. Entrambi furono rinchiusi nelle carceri di Santa Maria Capua Vetere. Secondo la confessione resa dal Gravante, il giovane insegnante di matematica venne fermato dal Petrella che gli intimò, pistola in pugno, di consegnare portafogli, orologio e stilografica. Il professore obbedì. L'accordo tra i due banditi, però,  era di non far fuoco per nessuna ragione; ma il Petrella, improvvisamente, premette il grilletto e scaricò la rivoltella sullo Scialdone che si accasciò in un mare di sangue. Inutilmente il Gravante tentò d'impedire il crimine. “Tu giocavi al calcio con lui - gli disse il Petrella -  Ti aveva riconosciuto e certo ci avrebbe denunciati”. Dopo il delitto i due andarono a cena insieme, tranquilli.  La sera successiva, come detto, erano al bar, davanti alla televisione e non sospettavano che i carabinieri fossero già sulle loro tracce.
     Fortunosa è stata la circostanza secondo la quale il prof. Scialdone era sfuggito ad un agguato già un giorno precedente  e aveva presentato ai carabinieri regolare denuncia   segnalando che due giovani in motocicletta lo avevano atteso per strada; aveva notato che la targa era siglata “CE” e ne aveva segnato i due numeri terminali, gli unici di cui fosse sicuro. Probabilmente si trattava degli stessi coi quali era venuto a diverbio un mese prima in seguito ad un incidente stradale; ne aveva anzi schiaffeggiato uno, che riteneva responsabile di averlo fatto uscire di strada accecandolo col faro della moto, e quello lo aveva minacciato: “Ricordati di noi, siamo di Grazzanise. Ci rivedremo”.
     Questi particolari agevolarono le indagini. L'arresto, come s'è detto, è avvenuto senza incidenti. I carabinieri erano  tuttavia scettici sul movente del crimine. Sembra, accettabile invece la tesi, condivisa da gran parte della popolazione, della vendetta che i due giovani avrebbero puntualmente messo in atto come avevano minacciato. E’ dà notare tra l'altro che se venisse accolta la versione degli assassini, essi potrebbero essere condannati all'ergastolo com’è, previsto dal codice penale per gli omicidi a scopo di rapina.
     In casa del Petrella, che il complice aveva  accusato di essere l'esecutore materiale del crimine,  i  carabinieri rinvennero  una rivoltella calibro 9 dalla quale mancava un intero caricatore. Altri sconcertanti particolari si appresero nel corso del lungo interrogatorio e nel drammatico confronto  del magistrato nel carcere sammaritano. Emerse che, dopo avere ucciso il professore  - l’esecutore materiale del crimine  - diede al complice cinquanta lire di ricompensa.
Si appurò inoltre, che  Nicola Petrella, il bovaro ventenne, aveva scaricato  l'intero caricatore della sua rivoltella contro l'insegnante di matematica -  anche se, messo alle strette respingeva ogni addebito negando addirittura di conoscere lo Scialdone.  Ma il suo giovane compagno fornì ai carabinieri tutti i particolari del delitto. Il più giovane dei due assassini  raccontato infatti  un particolare patetico.  Il professore non voleva dare il portasigarette d’argento e la penna stiloogtrafica perché aveva asserito che erano  regali della sua fidanzata. Circa le indagini svolte dai carabinieri si apprese  che furono seimila le moto la cui targa fu esaminata per trovare quella usata dagli assassini la cui  targa incominciava con “OS”, le sigle segnate dalla vittima. Di esse diciotto erano del tipo Beta 125. Una sola, verniciata in rosso, era stata venduta a Grazzanise, ed aveva la matricola  “CE 1108”. Era quella, sequestrata, di proprietà dell'omicida.  

Accadde a Lusciano il 28 dicembre del 1949
RESPINTA DALL'EX FIDANZATO LO UCCISE A COLPI DI PISTOLA
Si è conclusa,  con un grave fatto di sangue,  una triste storia d'amore che ha profondamente scosso la pacifica e tranquilla popolazione di Lusciano. Sull'imbrunire, il giovane  Antonio Prisco, mentre transitava per una delle vie del paese, veniva fatto segno a numerosi colpi di arma da fuoco sparatigli contro da una giovane donna identificata più tardi per Flora Certezza di anni 22 da Aversa.
     Uno dei proiettili colpiva in pieno petto il giovane che decedeva dopo pochi istanti. L’ omicida, che poco dopo si costituiva,raccontò  ai carabinieri che fidanzatasi sei anni prima con il  Prisco, fu da questi sedotta e abbandonata. Il giovane fu poi chiamato alle armi e fatto prigioniero. In questo periodo la ragazza si fidanzò con un certo  Pasquale Raimondo da San Marcellino, col quale, a quanto lei stessa affermava  strinse intime relazioni.
     Ritornato il Prisco dalla prigionia, la Certezza tentò invano di riappacificarsi con il suo ex-fidanzato. Fu il rifiuto che spinse la donna, a quanto essa ha dichiarato, al folle gesto. Sul posto accorsero le autorità e i carabinieri che dopo gli accertamenti di legge fecero rimuovere il cadavere. Alla ragazza fu riconosciuto il delitto d’onore e condannata a pochi anni di carcere.

 

 

Accadde il 15 giugno del 1956

 

UN QUINDICENNE DI AVERSA SAREBBE STATO UCCISO DAL FRATELLO – LA MAMMA PER SALVARE IL  FIGLIO SI ACCOLLO’ IL DELITTO -

 Chi ha ucciso, con un colpo d'arma da fuoco alla, nuca, il quindicenne Luciano Griffo? Fu questo il rompicapo che attanagliò per diversi giorni i  carabinieri  i quali non furono in grado – sulle prime - di dare una risposta a tale angoscioso interrogativo, nonostante le più intense e accurate indagini iniziate subito dopo la scoperta del crimine.
     Il cadavere era stato rinvenuto da un fratello della vittima, il ventottenne Gennaro Griffo, in una vigna situata in contrada “Cinque Vie”, nel comune di Trentola, a pochi chilometri dalla città di Aversa.  Il fatto che però impressionò gli inquirenti e che il Gennaro Griffo, dopo il rinvenimento del cadavere del fratello si era dato  alla latitanza.  Con lui, inverosimilmente scomparve  anche un altro fratello, Domenico, di 26 anni.
     Tutti i membri della numerosa famiglia Griffo -  il padre Michelangelo, la madre Maria Costanzo e le figlie Anna e Antonietta – furono fermati dai carabinieri.  Da un ulteriore interrogatorio dei fermati si apprese che il ragazzo non era scomparso la  domenica  precedente bensì martedì, giorno in cui probabilmente fu ucciso.
La madre del giovane ucciso, nel tentativo di scagionare un altro figlio ( i figlie sai che ssò… sò piezze e core… si dice a Napoli) si accollò la responsabilità del delitto adducendo il motivo che il figlio aveva chiesto del denaro che lei gli aveva negato… ma i carabinieri appurarono invece che era stato uno dei fratelli in seguito ad un violento litigio ad uccidere il giovane.
    Alcuni braccianti del luogo, però, dichiararono di aver visto il giovane aggirarsi nei pressi della sua abitazione martedì verso le ore 18. Qualcuno asseriva  che il delitto sarebbe stato perpetrato in casa, durante un diverbio con il fratello   Gennaro. Costui, per far credere a un suicidio, avrebbe poi trasportato a spalle il corpo del fratellino nella vigna. Tuttavia secondo indiscrezioni, come detto, si era appreso che la madre della vittima, nell'estremo tentativo di salvare il figlio Gennaro, aveva confessato di avere soppresso lei il  piccolo Luciano.  Il cadavere, secondo la donna, sarebbe stato trasportato soltanto mercoledì sera sul posto dove è stato rinvenuto, dopo che l'aveva tenuto nascosto per tre giorni nella stalla.
 Ma le bugie  - come si dice - hanno le gambe corte e gli inquirenti riuscirono a dipanare il bandolo della matassa accertando che  giovane era stato  ucciso dal fratello maggiore.  L'assassino sparò per difendersi e dopo  il delitto  nascose poi il cadavere nella stalla della casa dove era in corso il  festeggiamento per il fidanzamento della sorella.
    
      Il mistero che avvolgeva il delitto di cui era rimasto vittima il quindicenne Luciano Griffo, fu  chiarito grazie a un tranello teso dai carabinieri di Trentola. Erano trascorsi quattro giorni da quando era stato rinvenuto il cadavere del ragazzo e ancora si brancolava nel buio. Vi erano state le confessioni della madre e del fratello Gennaro, che entrambi si erano dichiarati responsabili del delitto, ma non si era giunti in porto. I carabinieri continuavano a cercare la verità. Verso le 16 di quel  giorno  uno dei militi pare abbia detto alla madre che sarebbe giunta, in serata, dalla Corte di Assise di  Santa Maria Capua Vetere, la sentenza che condannava tutti a 30 anni di reclusione.
     Era  stata questa bugia che aprì una falla nel cuore di Maria Costanza, la quale confessò la verità attribuendo al figlio Gennaro la materialità del delitto.
 Lecose erano andate così: il lunedì Luciano rientrando in casa aveva detto  alla madre: “Ho visto un lutto fuori della chiesa parrocchiale, ho sperato che fosse per te”. La donna avrebbe voluto picchiarlo, ma il ragazzo riuscì a scappare. Martedì sera Luciano, stanco e affamato, rientrò in casa e chiese alla madre 500 lire ma questa, ricordando quanto era avvenuto la sera precedente, rifiutò il denaro. Allora il ragazzo si scagliò contro di lei colpendola con calci,  e  schiaffi (una perizia medica  accertò sul corpo della donna i segni ancora evidenti delle lividure), ma il padre Michelangelo Griffo, intervenne a sua volta aggredito e colpito dal figlio, il quale afferrò un bastone, ma Luciano riuscì a fuggire.
     Poco dopo rientrò e trovò sola la madre con la quale riprese a litigare. Sopraggiunse il fratell Gennaro il quale appreso ciò che il fratello Luciano aveva fatto, lo afferrò e lo bastonò e quindi, estratto dalla cintura una rivoltella a tamburo, gli sparò in un orecchio.
     Il ragazzo colpito a morte spirò poco dopo. Fra la madre e il figlio sorse il problema di come nascondere il cadavere. La stalla era per il momento il nascondiglio ideale. Fu così che Gennaro si caricò il cadavere sulle spalle e lo nascose nel fienile facendo poi sparire l'arma e le tracce di sangue.
     Quando rientrarono, il padre e le sorelle Anna e Antonia non si accorsero di nulla. Il giorno successivo in casa Griffo vi fu un grande via vai di persone per la festa del fidanzamento della sorella Antonietta. A notte inoltrata, dopo il banchetto offerto agli invitati, Gennaro accompagnato dalla madre trasportò il cadavere del fratello nel posto dove venne rinvenuto il mattino successivo.
Tutto si concluse a favore del fratello accusato del delitto: omicidio preterintenzionale.


Accadde a Casaluce il 9 agosto del 1956
UN MEDICO AGGREDITO RISPONDE A RIVOLTELLATE UN CERTIFICATO   ALL'ORIGINE DEL DRAMMA
 Un gravissimo episodio avvenne verso le ore 10,30 in corso Umberto I a Casaluce, episodio che poteva avere ben più gravi conseguenze se le persone che si trovavano nei paraggi non si fossero rifugiate nei portoni adiacenti per non venire colpite in una sparatoria.  L'operaio ventinovenne Giovanni Manzi si era recato nella vicina Frignano Maggiore per pregare il medico di Casaluce, il dott Salvatore De Rosa, di 40 anni, domiciliato a Frignano, di rilasciargli un certificato medico che gli era necessario per poterlo presentare al datore di lavoro, in quanto egli non si sentiva bene a causa di una lombaggine che lo affliggeva da vari giorni.
    Ma in Frignano non trovava il medico titolare ma  a riceverlo era cosi il padre di quest'ultimo, Giuseppe De Rosa, che sentendosi offeso da una frase poco cortese nei confronti del figlio pronunziata dall'operaio Manzi, lo schiaffeggiava. Il Manzi vista l'impossibilità di reagire ritornava a Casaluce, dove raccontava il fatto ad alcuni amici. Egli decideva di attendere il medico che non sarebbe tardato a giungere. Alle 10,30 infatti, il dott. Salvatore De Rosa s'incontrava con l'operaio. Dopo un breve scambio di improperi da ambo le parti, si veniva alle mani. Nella mischia intervenivano altre cinque persone che si scagliavano addosso al sanitario percuotendolo a sangue con bastoni e calci.
     A questo punto, per non venire ucciso sotto le percosse degli assalitori, il dott. Salvatore De Rosa, che andava sempre armato, estraeva dalla fondina la pistola e cominciava a far fuoco sugli aggressori. Primo ad essere raggiunto da un proiettile era il Giovanni Manzi, che riportava una profonda ferita all'avambraccio destro, per cui si rendeva necessario ricoverarlo all'ospedale civile di Aversa; poi una donna che si trovava a passare di là, Margherita Di Lello, di 48 anni, da Casaluce, che riportava una ferita senza foro d'uscita alla regione scapolare sinistra, per cui veniva trasportata all'ospedale di Aversa In imminente pericolo di vita. Il dott. De Rosa subito dopo si dava alla latitanza. L’epilogo: al medico fu riconosciuto l’esercizio della legittima difesa.


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