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mercoledì 17 febbraio 2010

(11) Don CIRO FORMICOLA…
IL BOSS DAL CUORE… TENERO

Il “S. Antonio”, è invece un trattamento con il quale il detenuto viene coperto da un telone - ( o da una coperta ) - e ammazzato di botte. Vi è un fitto mistero sugli autori di questo tribale rituale. Non si è mai saputo - con precisione - se gli autori sono i detenuti criminali o i secondini divenuti tali. “Un tempo” - scrive il giudice De Cataldo in “Minima Criminalia”, a proposito del “S.Antonio” - “i disperati sapevano che sarebbero usciti dal carcere solo morti: progettavano allora evasioni impossibili, o scatenevano la propria violenza sugli altri detenuti, o venivano impiegati dallo Stato per sbrigare certe faccende troppo sporche per poter essere risolte in via ufficiale: come il “S.Antonio”, ossia il pestaggio a morte, di cui fu vittima, a un anno dalla condanna, l’anarchico e regicida Gaetano Bresci”.

Don Ciro, mi raccontava, che c’era stato nelle celle di rigore a dormire sul tavolaccio, senza sigarette, senza tv, a pane e acqua, con il bagno alla turca, perché un giorno, ad un secondino che lo aveva offeso, gli aveva scaraventato una borsa in faccia. Se sono sopravvissuto al carcere duro, non si dimentichi che io, da incensurato, sono stato messo in cella al padiglione di massima sicurezza “Genova”, che era riservato ai boss, e che sulla cella c’era un cartello con la scritta “massima sorveglianza” , lo debbo a loro: Peppe e Ciro. Ho intrattenuto con gli stessi, per un certo periodo, un fitto rapporto epistolare. Le lettere di risposta traboccavano di umanità. Spesso mi hanno fatto piangere. Don Ciro mi faceva scuola su tutto. Mi diceva, quando dovevo andare ai colloqui con mio figlio Lello: “Datevi contegno, fatevi la barba, non dite che state male, che soffrite; loro, i vostri familiari, non possono fare niente per voi, e soffrono più di voi”. Parole sante! Mi davano forza. Facevo finta di stare bene. E… per il corridoio facevo la … “stesa!”. E mio figlio si meravigliava e non capiva la farsa, la messinscena. Quando ero in cella costretto a crucciarmi con i miei affanni, il cuore si riempiva di gioia quando arrivavano le lettere delle persone che amavo. Le leggevo e le rileggevo. Il mio volto era sempre rigato di lacrime. I miei compagni di cella, adusi ad atteggiamenti del genere, si ritiravano nel loro cantuccio rattristandosi per quelle lacrime. Erano lacrime di gioia. E’ strano, come uomini duri, accusati di reati gravi, trattati come belve, possano avere un cuore così tenero. Ma la passione, non è forse una strana malattia? E’ strano che si possa arrivare addirittura a dire, ad un compagno di cella: ”Ti voglio bene!”. Mi è capitato, allorquando sono stato ristretto nel nuovo carcere sammaritano, nel 1999, assieme ad Angelo Affinita, un giovane pugile, ( una vera speranza del pugilato italiano ), di Santa Maria a Vico, che aveva ucciso un uomo perché gli aveva promesso un posto e lo derideva. Pare che fosse un tale Giuseppe Vanacore che gestiva una impresa di pompe funebri. Fu condannato a 10 anni di manicomio. Il giorno della mia scarcerazione, ( era quasi mezzanotte ), si arrampicò alla grata della cella e gridò a squarciagola: ”Professore… vi voglio bene!!!”.

E fuori dal carcere? Peggio, molto peggio. Chi credevi amico, si è invece rivelato un vigliacco! Quando esci dalla galera, non hai più nulla di quello che avevi al momento del tuo arresto. Hai perso tutto: affetti, stima, rispetto, onorabilità, posto di lavoro. Tutto. Devi ricominciare daccapo… “con gli arnesi ormai logori”, come dice Kipling. Anche se risulterai innocente non sarai mai perdonato dalla società, da questo, che gli eufemisti chiamano “consorzio civile”.

Dice bene Carnelutti: “La gente crede che il processo penale finisca con la condanna e non è vero; la gente crede che la pena finisca con l’uscita dal carcere, e non è vero; la gente crede che l’ergastolo sia la sola pena perpetua e non è vero. La pena, se non proprio sempre, nove volte su dieci, non finisce mai. Chi ha peccato è perduto. Cristo perdona, ma gli uomini no”.

Il carcere non è rieducativo, come pretende la Carta Costituzionale, o come si vorrebbe far intendere, anzi è una scuola di crimine. Ho appreso, nei miei periodi di permanenza: la tecnica per fabbricare gli esplosivi, come efficacemente si scippa un rolex, come si clonano le carte di credito, quanti tipi di droga esistono e si possono commercializzare, ( mi spiegava uno spacciatore di Torre del Greco che lui tagliava la cocaina con un biscotto Plasmon mettendo il tutto nel frullatore). Un altro napoletano mi ha invece spiegato per filo e per segno la tecnica delle rapine agli uffici postali o alle banche. Non c’è nulla di improvvisato: il sopralluogo preventivo, il palo, le auto nei posti giusti, le armi che possono sfuggire al metal detector, un complice che si cela tra i clienti in attesa, il posto dove sono collegati gli allarmi, il flusso dei denari… e una dose di cocaina che, a detta di molti, mette coraggio.
( In galera, in galera – 11 – continua )

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