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lunedì 8 aprile 2024

 


GLI 80 ANNI DI SABELLI FIORETTI

Sabelli Fioretti: “Berlusconi in manette, Cossiga in mutande”

L'INTERVISTA - “Con Spadolini ho litigato molto. Ho sbagliato su Bondi e Vannacci”

8 APRILE 2024

(Seconda e ultima parte dell’intervista a Claudio Sabelli Fioretti realizzata per i suoi 80 anni. Ieri la prima)

In comune con Scalfari hai una passione per Spadolini. Hai scritto un libro sull’ex presidente del Consiglio.

Fu un litigio clamoroso. Quando l’editore gli mandò le bozze, decise di sopprimere il capitolo dedicato alla polemica con Capanna che gli contestava di aver scritto per giornali fascisti.

E tu?

Dissi all’editore di non azzardarsi; Spadolini mi telefonò e gli sbattei il telefono in faccia. Ero uno scapestrato.

Con Cossiga due libri-intervista.

È stata la mia passione, potevo chiedergli di tutto: accettava; soprattutto ai tempi di Un giorno da pecora: quando veniva in trasmissione si presentava con una bottiglia di whisky. “Presidente non si può, sono le regole della Rai”. “Me lo vengano a dire”. La volta dopo si fece accompagnare dal direttore generale della Rai.

Rapporto stretto.

Per uno dei libri mi volle in vacanza: “Porta pure tua moglie”. La mattina ci presentiamo a casa sua e troviamo un corteo di sei macchine: mi sono cagato sotto.

Addirittura?

Erano organizzati con modalità anti terrorismo, correvano come folli, fino a quando davanti a una chiesa hanno inchiodato: si doveva confessare. “Presidente è chiusa, non c’è il prete”. Poco dopo hanno trovato il prete.

In vacanza con Cossiga.

La mattina andavo in camera sua. Dormiva con l’assistente. Non sopportava restare solo. Si alzava ma non si vestiva. E ogni mattina lo intervistavo in mutande.

Hai rallentato con le interviste.

Per colpa di Teresa Bellanova, quando era ministro: secondo me ha capito che mi stava sulle palle e per un anno ha rimandato l’appuntamento. Fino a quando ho pensato: ma posso passare la vita appresso a una rompicoglioni? Mi ha fatto passare la voglia.

A A Valeria Marini ne hai dedicate tre…

Mi ha dato sempre grandi soddisfazioni: si metteva il rossetto e poi baciava il quaderno dei miei appunti. Baci stellari.

Gianni Boncompagni altro tuo “cliente”.

Uomo divertente, non ti lasciava mai deluso. “Gianni, ma non puoi metterti con una della tua età?”. “Sono tutte morte”.

Su chi hai sbagliato?

In un paio di occasioni sono stato prevenuto, e invece ne sono uscito estasiato.

Nomi.

Il primo è Sandro Bondi: grande umanità, era un po’ patetico, quasi piangeva quando parlava di Berlusconi.

L’altro?

Il generale Vannacci.

Ti piacciono perché offrono un buon titolo.

Anche per quello.

Chi ti ha deluso?

Sergio Japino. Una volta davanti a lui mi sono reso conto di aver dimenticato a casa le domande, e non sapevo cosa chiedergli, non ho memoria, E lui rispondeva a monosillabi.

Tu chiudi le interviste con il gioco della torre. Quindi tra Scalfari e Mieli?

Scalfari, mi ricorda un mio errore e una sua cattiveria. Mentre Mieli mi è sempre stato vicino.

Gruber-Berlinguer.

Con la Gruber ho un buon rapporto, ma ha rifiutato di farsi intervistare. Per me è un peccato mortale, posso odiare per molto meno. Salvo la Berlinguer.

Giletti-Fazio.

Fazio è un altro che non mi ha dato l’intervista; Giletti lo vedo una volta l’anno al premio Nonino, e l’ultima volta ballava vergognosamente in canottiera. Una scena penosa.

Ricci-Bonolis.

Di Ricci ho un ricordo drammatico: a causa sua ho iniziato a girare con due o tre registratori.

Che è successo?

Lo intervistai ma il registratore non aveva funzionato e non gli potevo rivelare l’errore. Ho fatto finta di niente e lui non mi ha chiesto nulla.

Pier Silvio o Marina Berlusconi.

Ho circuito la famiglia Berlusconi, mi sono prestato a situazioni vergognose. Ma per un’intervista sono pronto a qualunque bugia. Se uno mi rivela “tifo per la Salernitana”, rilancio con “anche io!”.

Allora…?

Se l’intervistato aveva qualche contatto con Silvio Berlusconi, ogni volta gli mandavo un biglietto, una frase, qualunque aggancio pur di arrivare a lui.

Fino a quando è venuto ospite a Un giorno da pecora.

Puntata storica.

Gli ho toccato i capelli, “sono veri?”, poi gli ho chiesto se era frocio e lui mi ha risposto chiedendomi se ero sicuro non fossi un pervertito; mentre Giorgio Lauro gli ha messo le manette: “Tanti italiani vorrebbero”. E Berlusconi ha retto la scena in maniera pazzesca.

Pier Silvio o Marina?

Salvo Pier Silvio.

Moretti-Sordi.

Amo Sordi. Anche se con Moretti abbiamo in comune Salina.

Che combini a Salina?

Ci vivo sei mesi l’anno, quando non sono a Lavarone per imbottigliare spumante.

Ti occupi di vino?

Come D’Alema e Vespa, però il mio è un vino buono.

Come festeggi gli 80 anni?

Odio i festeggiamenti.

Tu chi sei?

Sono uno molto turbato dall’idea di avere 80 anni e sono molto contento quando le persone mi dicono che ne dimostro 60; sono scontento dall’idea di dover morire: non è giusto. Ho in testa tanti progetti. Con tanta gente che deve morire, perché proprio io?

domenica 7 aprile 2024

 

di Giulia Merlo

Il Domani, 7 aprile 2024

Il decreto legislativo del governo introduce nel 2026 dei test per valutare l’equilibrio degli aspiranti magistrati. Il modello è stato inventato negli Stati Uniti nel 1942, ma gli esperti dubitano che sia funzionale per le toghe. La premier Giorgia Meloni sostiene che “la maggioranza dei magistrati è d’accordo” con i test psicoattitudinali introdotti con l’ultimo decreto legislativo approvato dal consiglio dei ministri. Per contro, l’Associazione nazionale magistrati proprio questo fine settimana deciderà se proclamare o meno uno sciopero contro un’iniziativa che è stata definita dal presidente Giuseppe Santalucia “una norma simbolo”, con lo scopo di “creare la suggestione nell’opinione pubblica che i magistrati hanno bisogno di un controllo psichiatrico”. Nel mezzo c’è il ministro della Giustizia Carlo Nordio che ha licenziato formalmente il testo e, come test su cui modellare quello delle toghe, ha citato il Minnesota. Visto che ancora non ci sono certezze di merito, se non che i test verranno introdotti dal 2026 e la procedura sarà nelle mani del Csm, con la commissione esaminatrice dei futuri magistrati coadiuvata da psicologi, proprio l’evocazione del test Minnesota è l’unico esempio empirico a cui rifarsi per capire meglio a cosa andranno incontro le toghe.

Il test - Il Minnesota Multiphasic Personality Inventory, abbreviato in Minnesota, è uno dei più diffusi test psicologici per valutare le principali caratteristiche della personalità ed è utilizzato sia in contesti clinici sia in quelli concorsuali. Il test da solo non è sufficiente ma prodromico di un colloquio orale con uno psicologo o psichiatra e così sarà anche per i magistrati in sede d’esame. La prima versione del test è stata realizzata nel 1942 dall’ospedale dell’Università del Minnesota e serviva per avere una prima diagnosi che determinasse la gravità dei disturbi psicopatologici dei pazienti. Dopo anni di studi, il test è stato aggiornato prima nel 1989 e poi nel 2001. I progressivi adattamenti hanno ampliato la portata del test, così da poter testare anche la stabilità emotiva, la personalità e l’adattabilità di chi vi si sottopone. La versione italiana è stata realizzata nel 1995 e curata da Paolo Pancheri e Saulo Sirigatti ed è composta di 567 domande. Il funzionamento è sempre lo stesso: il candidato deve rispondere con vero o falso a seconda che consideri l’affermazione prevalentemente vera o prevalentemente falsa.

Le risposte, poi, vengono valutate sulla base di una serie di scale: di validità che rilevano risposte non pertinenti, inconsistenti e incoerenti; cliniche che valutano il grado di presenza di varie patologie (con tre aree principali: l’area nevrotica, l’area sociopatica e l’area psicotica) e di singoli sintomi; e di contenuto, che approfondiscono diversi aspetti della personalità.

Il test è stato progettato e poi affinato in modo empirico: i medici hanno studiato circa un migliaio di quesiti che poi sono stati sottoposti ai pazienti e ai loro visitatori: da quel primo nucleo di domande sono state selezionate quelle che, secondo i medici, erano in grado di discriminare il gruppo dei normali da quello dei patologici, divisi poi per gruppi di patologie.

Le domande - Il test si compone di affermazioni lineari, queste sono le prime venti: mi piacciono le riviste di meccanica; ho un buon appetito; mi sveglio fresco e riposato quasi tutte le mattine; penso che mi piacerebbe il lavoro di bibliotecario; mi sveglio facilmente a causa del rumore; mio padre è un brav’uomo (o se tuo padre è morto) mio padre era un brav’uomo; mi piace leggere articoli di giornale sulla criminalità; le mie mani e i miei piedi sono solitamente abbastanza caldi; la mia vita quotidiana è piena di cose che mi tengono interessato; sono in grado di lavorare più o meno come sempre; sembra che abbia un nodo in gola per la maggior parte del tempo; la mia vita sessuale è soddisfacente; le persone dovrebbero cercare di comprendere i propri sogni e lasciarsi guidare o ricevere avvertimenti da essi; mi piacciono le storie poliziesche o misteriose; lavoro sotto molta tensione; di tanto in tanto penso a cose troppo brutte per parlarne; sono sicuro che otterrò una brutta esperienza dalla vita; sono tormentato da attacchi di nausea e vomito; quando accetto un nuovo lavoro, mi piace scoprire con chi è importante essere gentile; sono molto raramente disturbato dalla stitichezza. Il test ha normalmente una durata di 120 minuti, quindi per ogni domanda si hanno circa 12 secondi di risposta. L’obiettivo è che il candidato risponda di getto e in maniera sincera e ci sono quesiti che servono a testare la coerenza delle risposte. Esiste poi un riferimento di risposte considerate “normali”, rispetto a cui si comparano quelle date dal candidato e così vengono valutati i comportamenti problematici.

Il giudizio - Il test è attualmente utilizzato in particolare per l’ammissione nelle forze dell’ordine, con una motivazione specifica: il possesso e l’uso delle armi e la possibilità di dover decidere se sparare o meno in pochi secondi, per cui è considerato necessario individuare instabilità emotiva o vulnerabilità allo stress. In questo sta la differenza tra poliziotto e magistrato, per cui è difficile equiparare le due figure ai fini del test: nel tempo che i due profili hanno per prendere una decisione. Come per tutti i test d’accesso, anche per il Minnesota sono disponibili corsi che preparano i candidati a sostenere il test e a svolgerlo in modo da superarlo. Le cosiddette “domande di controllo” per testare la sincerità e quelle che identificano particolari patologie sono infatti identificabili ad una lettura attenta. Per esempio, sono reperibili online delle possibili soluzioni, che dovrebbero permettere di superare il test psicoattitudinale per entrare nell’esercito. Riferendosi alle prime dieci domande, le risposte coerenti sarebbero: falso; vero; vero; falso; falso; vero; falso; vero; vero; vero. Secondo i formatori, i segreti sono due. Il primo è quello di leggere bene le domande e prestare particolare attenzione agli avverbi: sempre, spesso, talvolta, mai, raramente, poco. Questi, infatti, impongono di quantizzare la frequenza o l’ammontare con cui si verifica il fenomeno oggetto dell’affermazione.

Il secondo è di stare attenti alle frasi costruite con doppie negazioni, che rischiano di trarre in inganno nella risposta. L’indicazione comunemente data ai candidati che si sottopongono al test per carriere militari è quella di rispondere a tutti i quesiti perché altrimenti il test rischia di essere invalidato, di non forzare le risposte per tentare di apparire migliori mentendo, perché rischia di emergere facendo trasparire insicurezza e di non interpretare le frasi immaginando significati nascosti, che rischiano di mandare fuori strada. Il problema, tuttavia, nel caso dei magistrati sarà quello di individuare sulle varie scale di interpretazione del test quali sono, ipoteticamente, le caratteristiche necessarie per un buon magistrato e quelle da non avere.

L’attendibilità - Il presidente della Società Psicoanalitica Italiana Sarantis Thanopulos, in una analisi pubblicata su Questione giustizia, ha spiegato che i test di valutazione psicoattitudinali per i magistrati sono “inappropriati sul piano psicologico” perché fanno “coincidere il senso di responsabilità con l’assenza di sofferenza psichica”. L’utilizzo generalizzato dei test viene dal mondo delle imprese e “risponde alla necessità di valutare l’adesione psicologica delle persone assunte ai princìpi regolatori del sistema di cui entrano a far parte”, perché i test “verificano il grado di conformazione alla mentalità performativa anonima che l’impresa pone a fondamento di un suo funzionamento”. Nei magistrati, invece, è opinabile che l’adesione a standard omologati sia un pregio e non lo siano invece la capacità di valutazione critica e l’originalità creativa.

In concreto, inoltre, Thanopulos contesta lo strumento, proprio perché esistono - come facilmente si scopre con una ricerca online - corsi di preparazione che forniscono le risposte adeguate e “l’approccio “giusto” ai partecipanti a un concorso”. Questo perché alla base del test c’è la “configurazione di una personalità “normale” a cui nessuno di noi corrisponde veramente”. In altre parole, “alla base delle risposte al test psicodiagnostico non c’è alcuna “sincerità”, ma piuttosto una conveniente imitazione della mentalità richiesta” e “la cosa importante è che al posto dell’esercizio della critica subentri l’obbedienza”. Proprio la questione dell’attendibilità delle risposte è centrale. Il test, infatti, è stato progettato in ambito clinico e in quella sede il soggetto ha interesse a collaborare per capire il suo malessere e quindi la cura. Dunque, “più la sua applicazione si allontana dal campo della clinica, più la sua attendibilità si riduce”.

 


L’INTERVISTA

“La scimmia in redazione, le liti con Scalfari e i politici, le canne a effetto lassativo”

CLAUDIO SABELLI FIORETTI - Scrittore e giornalista compie 80 anni: “Una dote? La curiosità totale”

7 APRILE 2024

Regole di ingaggio. “Voglio vedere quali foto pubblicate”.

Vanitoso.

Sono vanitoso e allora? Non vuol dire che io sia pieno di me, sono solo contento quando qualcuno mi dedica le sue attenzioni.

Sempre stato o con gli anni sei cambiato?

Da giovane ero violentemente vanitoso, invecchiando mi sono addolcito. Adesso voglio bene a chi mi considera.

(Claudio Sabelli Fioretti compie 80 anni il 18 aprile. È uno dei grandi del giornalismo, ha diretto cinque giornali “non sempre bene, mi hanno pure cacciato”. Ha condotto trasmissioni come Un giorno da pecora, con il presidente Cossiga complice fisso. Ha inventato un genere di interviste, il corpo a corpo: “Ho superato le 600. Poi mi sono un po’ rotto le palle”).

Sei un fautore delle domande semplici. Quindi: perché giornalista?

Lo era mio padre. Ed era abbastanza famoso, è stato direttore del Corriere dello sport e anche redattore capo della Gazzetta dello sport. Fu il primo radiocronista di calcio. Casa mia era permeata di giornalismo sportivo; quando papà seguiva il Giro d’Italia, se la carovana passava vicino al nostro appartamento, nei dintorni di Bracciano, i giornalisti si staccavano per mangiare da noi.

Tutto ciò ti ha facilitato.

Sì, da subito, da quando ho cercato di guadagnare qualcosa.

Come?

Mi occupavo di sport minori, andavo a prendere i tabellini delle partite giovanili; a quel tempo si veniva assunti, magari dopo un po’ di gavetta, tipo il caffè per il redattore capo e altre amenità.

Pure tu?

No, venni quasi subito assunto da Nevesport, un giornale di Milano.

Ti avranno dato del raccomandato?

Lo ero, ma nessuno mi ha contestato. A quel tempo i posti c’erano; già nel 1968, a soli 24 anni, sono entrato a Panorama: il settimanale andava talmente bene che il direttore Lamberto Sechi assumeva un giovane al mese.

Altro mondo.

Ero talmente immerso in quella realtà da non aver mai capito chi mi avesse raccomandato.

Da dentro il giornalismo, cosa hai scoperto che da ragazzino non immaginavi?

Che non bisogna fidarsi troppo degli editori. Anzi, per niente. Sono loro ad aver portato al disastro la stampa italiana, con la collaborazione dei direttori.

Illuminazione immediata?

Quando scrivevo per Nevesport, l’editore ci chiedeva qualunque tipo di sforzo, con orari improbabili. Per questo ci drogava.

Metafora?

Per superare la notte ci dava la simpamina (una amfetamina, ndr).

E voi?

La prendevamo. E andavamo avanti anche due notti di seguito; quando vinse Franco Nones (fondista, Olimpiadi del 1968, ndr), mi caricarono in macchina cinquanta copie del giornale e mi spedirono a Grenoble da Milano, per marcare il terreno.

Arrembante.

Potevo essere morto.

Ma carriera fulminante.

Panorama sono diventato in poco tempo redattore capo; da lì mi offrirono di diventare direttore di ABC. Guadagnavo un casino di soldi.

Ti eri montato la testa?

Un pochino; (ride) ero stato assunto da uno scimpanzé.

Anche qui: metafora?

Mi invita a pranzo Francesco Cardella, editore di ABC, sposato con Raffaella Savinelli, la figlia del re delle pipe. Andammo da Giacomo, uno dei migliori ristoranti di Brera. Lui si presentò con Bobo, una scimmia vestita con giacca e cravatta. Bobo si sedette di fronte a me.

Altro che Caligola.

Bobo perché Cardella era molto legato a Craxi.

E al ristorante?

Cardella serio: “Ti voglio ad ABC, ti pago il doppio di Panorama”. “Forse accetto, ma non voglio cenare con una scimmia”. Bobo uscì con la moglie di Cardella, ma la ritrovai nelle riunioni di redazione.

Tuo padre cosa pensava della tua carriera?

Era contento; una volta fu veramente dolce: “Oggi un signore mi ha chiesto se sono tuo parente”. Quando in teoria doveva essere il contrario.

Le tue doti.

Curioso in maniera totale. Quando da bambino andavo alle feste, aprivo tutti i cassetti del padrone di casa.

Hai mai rinunciato a una notizia?

Ho una carriera strana, mi sono occupato di radio, giornali, televisione…

E… ?

Ho realizzato circa 600 interviste, con qualcuno ho litigato.

Chi?

Uno scrittore.

Pennacchi.

Con lui no, piuttosto mi ha rilasciato un’intervista impubblicabile: per tutto il tempo ha ripetuto solo “stronzo, vaffanculo e cazzo”; poi mi portò in un ristorante pieno di busti di Mussolini e altri gingilli del Ventennio. Uno schifo.

Insomma, lo scrittore?

Ruggero Guarini. Mi scrisse un telegramma: “La diffido dal pubblicare l’intervista di cui mi ha mandato copia perché mutila e tendenziosa e comunque non mi ci riconosco”.

Pubblicata?

Sì, mutila e tendenziosa. Gli risposi che probabilmente l’infingardo Panasonic e il tendenzioso Sony mi avevano ingannato.

Due registratori.

Sempre con me; (sorride) oltre a Guarini pure l’attrice Ida Di Benedetto. Lei telefonò addirittura a Cesare Romiti per bloccare l’intervista.

E Romiti?

Mi chiamò: “Claudio, ma che vole questa?”.

Altre liti.

Alain Elkann: a metà intervista disse di aver cambiato idea. E io: “Va bene, ciao”.

Perché?

Eravamo al ministero della Cultura, c’era Sgarbi, invidioso, che entrava e usciva per dargli noia, poi avevo iniziato a domandargli dei figli: “Non ti dà fastidio essere meno ricco e meno famoso di loro?”.

Povero Elkann.

A quel punto disse “basta”. E dopo un po’: “Sei arrabbiato?”. “No, ma a questo punto corro via, ho il treno”. “No, sei arrabbiato”. “ Ti assicuro di no! Ciao, perdo il treno”.

Si convinse?

Mi chiamò pure quando oramai stavo in stazione: “Sei arrabbiato?”.

Hai intervistato più volte Gigliola Guerinoni, la mantide di Cairo Montenotte. Qualcuno supponeva che avevate una storia.

Avevano ragione.

Lo ammetti, quindi?

No. Ero appena arrivato a Il Secolo XIX e venni scaraventato in provincia. Seguii il processo per l’omicidio di Cesare Brin e la Guerinoni passava per essere una strafiga. A me però non piaceva. Ma ottenevo tanti scoop.

Per forza, avevate una storia.

No, ero bravo. Quando a pranzo tutti i giornalisti andavano a magna’, io restavo in aula, lei pure. E mi raccontava molte storie.

Amici.

Per il processo di Appello la prendevo in auto la mattina e la portavo in tribunale.

Sarai stato simpatico ai colleghi…

Sono stato più sulle palle ai giudici, ho perso un casino di soldi.

Che hai combinato?

Colpa della mia scrittura un po’ ironica; li prendevo per il culo. E s’incazzavano.

Esempio?

Di un giudice scrissi che l’ultimo giorno si era presentato in aula con ombrellone, ciambella e pinne. Doveva partire per le ferie.

Anche da direttore di Cuore hai perso qualche causa…

Mazzolato.

Quanto?

Diversi milioni di lire, molti di questi a Vincenzo Muccioli e al suo gruppo; eppure pubblicavamo cose vere, denunciavamo malefatte.

Cuore eravate tosti.

Ho scritto cose tremende, a volte esagerate. Quando Muccioli stava per morire, titolammo: “Tutto pronto all’inferno per l’arrivo di Muccioli”.

All’epoca eri coraggioso o spregiudicato?

Il Cuore di Serra era molto più bello del mio. Però era più attento, non gli arrivavano querele. Noi scapestrati. A monsignor Bettazzi facemmo confessare di essersi innamorato da giovane, e a quel tempo era una rivelazione enorme.

Con l’allora ministro Guidi non siete stati teneri.

Quando sono entrato a Cuore la redazione non mi voleva, erano innamorati di Serra; poi si sono innamorati pure di me.

E Guidi?

Appena nominato, c’era la Festa di Cuore a Montecchio e pubblicammo in copertina fotomontaggi di Guidi mentre stava alle parallele, si arrampicava e andava in bicicletta con il titolo: “Si finge disabile per ottenere una poltrona da ministro”.

Non molto politically correct.

Cuore erano tutti politicamente corretti. Quindi venni contestato, anche dai fan della festa di Montecchio, ma fortunatamente mi chiamò lo stesso Guidi e lo misi in diretta: “Claudio, sei il primo ad avermi trattato da persona normale”.

La sinistra perbenista.

Venivo da Lotta Continua, nel 1974 parte della liquidazione da Panorama l’ho data a loro.

Estremista.

Quando sono arrivato a Panorama ero democristiano, ma quello era un covo di comunisti. Piano piano li ho scavalcati a sinistra. Ripeto, era il 1968.

Botte alle manifestazioni?

Mai.

Canne?

In vita mia ne avrò fumate tre, sempre in serate alternative dove ci mettevamo seduti in circolo, a terra, e passava quest’oggetto bavoso che mi suscitava un po’ schifo. E poi ogni volta mi ha causato la stessa reazione.

Stordito?

No, andavo in bagno: mi scappava la cacca.

E le serate radical chic milanesi?

Frequentavo tutti, da Inge Feltrinelli a Ornella Vanoni. Ma in realtà i miei amici erano i giovani di Panorama, tipo Chiara Beria, Gianni Farneti, Marco Giovannini, Maria Luisa Agnese, Stella Pende, Valeria Gandus. Ancora ci vediamo.

Ieri Eugenio Scalfari avrebbe compiuto 100 anni. Con te il rapporto non è stato idilliaco.

Ero disoccupato da ABC, chiuso dopo una copertina con scritto “Carabinieri assassini”. Andai a Repubblica grazie a Lamberto Sechi, quando Repubblica doveva ancora uscire e ricordo Scalfari che veniva da me a mostrarmi il giornale che stava creando. Il mio ego era estasiato. “Tu sarai il capo dello sport”.

Perfetto.

Non so quanti numeri zero abbiamo realizzato, forse venti, ed era imbarazzante perché erano numeri veri, ma con servizi e interviste che poi non uscivano; (sorride) le riunioni con Scalfari erano pazzesche, lui gigione recitava una sorta di messa laica e, nel frattempo, si faceva chiamare da Craxi o da De Mita. Lui li redarguiva e li consigliava.

Ne eri affascinato?

Un pochino; aveva un vizio: quando parlava oscillava la testa da destra a sinistra. Iniziai pure io, e non ero il solo: dopo un po’ oscillavamo un po’ tutti.

Quando hai smesso di oscillare?

Feci una cazzata; (sorride e torna a prima) la mattina spesso scoprivamo che il numero zero, chiuso la sera precedente, era cambiato.

Come mai?

(Imita la voce di Scalfari) “Sai caro, siamo andati a casa di Marta e Marta ha detto che non andava bene”. Marta era la Marzotto. E la stessa Marzotto gli consigliò di togliere lo sport, perché volgare.

Insomma, la cazzata?

Decisero di riaprire lo sport; insomma c’era molta confusione ma non capii che era normale: Repubblica era un giornale allo stato nascente. Non ressi. E me ne andai a Tempo illustrato. Ma quelli di Tempo erano veri matti.

Soluzione?

Chiamai il redattore capo di Repubblica: “Puoi dire a Scalfari che mi cospargo il capo di cenere e mi inginocchio sui ceci? Chiedo scusa. Voglio tornare”. E il mio amico, un ottimista, un generoso: “Non ti preoccupare, considera la cosa fatta. Resta al telefono”. Dopo poco è tornato: “Ha risposto: nemmeno morto”. Me la sono legata al dito.

Ci hai mai fatto pace?

Non lo so, non ci ho più parlato.

(Fine della prima parte. La seconda e ultima esce domani)

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domenica 31 marzo 2024

 

Insomma prepariamoci ad una vagonata di fango e di illazioni ed alla colonna infame per alcuni.

*Sandokan, pentito o strumento?* di Vincenzo D'Anna*

Il pentimento del camorrista Francesco Schiavone alias "Sandokan", ha destato grande stupore ed al tempo stesso un diffuso scetticismo, soprattutto da parte di quanti ben conoscono la storia criminale del vecchio capoclan dei Casalesi. Dubbi e incredulità nascono dal fatto che il boss abbia deciso di collaborare con la giustizia dopo circa trenta anni di carcere duro, ossia del regime speciale 41.bis.

Parliamoci chiaro: chi ha già scontato un ergastolo e patito, per decenni, le inumane restrizioni della detenzione, non ha grandi motivazioni per saltare il fosso avendo praticamente consumato quasi tutta la propria vita dietro le sbarre. Nel contempo chi ha lasciato scorrere così tanto tempo tra l'arresto ed il pentimento rischia di rendere verosimilmente anacronistiche, se non inutili, ai fini giudiziari, le cose ha ha da rivelare agli inquirenti.

 

Al massimo, ciò che potrà dire, interesserà i giornali e coloro i quali seguono le vicende della cronaca nera. Chissà, forse Schiavone svelerà particolari su taluni fatti mai accertati, che serveranno tutt'al più a riscrivere la storia criminale di quegli anni.

 

Ho più volte ricordato come la legge sui pentiti sia stata varata nel periodo dell'emergenza terroristica: è vecchia di mezzo secolo e sovente viene utilizzata a beneficio di taluni pubblici ministeri i quali hanno in gestione i cosiddetti "collaboratori di giustizia" per imbastire processi senza prove.

 

Sarebbe quindi il caso di richiamare il combinato disposto esistente tra l'utilizzo di queste persone e lo pseudo reato di concorso esterno in associazione criminale, che tante volte ha consentito di incriminare ed incarcerare sventurati senza uno straccio di prova!!

Per essere ancora più chiari: di condannare politici emergenti, di collocazione quasi sempre destrorsa, sbattuti alla gogna perché sospettati di aver ottenuto lo scranno per scambio di voti e collusioni con la malavita organizzata.

In pratica, stangati perché rei di...raccogliere molti consensi!! Nicola Cosentino, ad esempio, sta scontando una pena a dieci anni di carcere per la sola "messa a disposizione", vale a dire la conoscenza di soggetti a loro volta collusi con le cosche di camorra.

L'ex leader campano di Forza Italia è stato condannato senza che si sia mai evidenziato e provato alcunché di concreto o di illecito nelle sue condotte, né alcunché che lo potesse solo ipotizzare.

Un altro noto politico come Raffaele Lombardo, ex parlamentare e presidente della Regione Sicilia, per analoghe circostanze, è stato invece assolto perché mancavano gli elementi fattuali concreti a lui additabili. Insomma: come si sarà capito, l'imputato, spesso e volentieri, si ritrova in balia dell'interpretazione, ondivaga ed immotivata, del fatidico "concorso esterno", un reato non tipizzato e nemmeno presente nel nostro codice penale!!

Non sfugge l'ovvia conclusione che il pentito può agire sia per vendetta che su sollecitazioni di vario tipo del pubblico ministero che deciderà i benefici da accordare al medesimo, col rischio di poter condannare chiunque senza avere alcuna concreta prova a riguardo.

 

Ed e’ lecito anche temere che "Sandokan" possa anche essere “utilizzato”dagli stessi magistrati per suffragare elementi indiziari o fornire conferme che, per via giudiziaria, non si siano mai potute ottenere.

Infine non è neanche azzardato ipotizzare che il tardivo pentimento del boss di Casal di Principe possa essere orientato a spazzare via altri clan emergenti, oppure farsi dissequestrare taluni beni e mettere al sicuro i propri familiari con un lauto appannaggio e la protezione dello Stato.

Insomma: il quadro che ne viene fuori è a dir poco inquietante perché i processi si celebrano rapidamente sui giornali e con tempi biblici nelle aule di tribunale.

Si immagini cosa succederebbe se venissero fuori un bel po' di nomi di politici: la guerra mediatica e quella tra parti e controparti politiche sarebbe a dir poco immediata.

Tanto tutti sappiamo che gazzettieri e spargitori di fango, fogli politicizzati, retroscenisti e complottisti, sono lì, pronti ed in fervida attesa di armare i loro pezzi da novanta al primo "sussurro" del padrino.

 

Ebbene sì: corriamo il rischio di impantanarci in una nuova stagione di veleni con lo scontro tra giustizialisti e garantisti, partiti e movimenti politici, leader e politicanti da strapazzo, tutti pronti a sfidarsi imbastendo processi sommari anche sui social, alimentati dalla solita miriade di odiatori sociali e squinternati che si rifugia dietro la tastiera.

Già la politica, di questi tempi, ha ben poche occasioni di confrontarsi sulle cose serie senza indulgere nella polemica scriteriata e di bassa lega, per poterci permettere che l'imminente campagna elettorale per le europee debba "celebrarsi" sulle confessioni di un camorrista ed assassino.

Da tempo andiamo chiedendo una nuova legge sui pentiti che affidi questi ultimi nelle mani di un magistrato terzo che, in un tempo breve, ne verifichi la fondatezza delle dichiarazioni; da anni invochiamo una legge che definisca i limiti e gli ambiti dello pseudo reato del "concorso esterno".

In ultimo, vorremmo scongiurare il pericolo che la magistratura politicizzata possa utilizzare, a suo uso e consumo, quello che Schiavone riferirà diluito nel tempo e per specifiche circostanze.

Negli Stati Uniti il collaboratore di giustizia che non riveli tutto quello che sa nel giro di sei mesi, non può ottenere più alcuna credibilità in futuro.

Noi però non viviamo in quel Paese ove la libertà personale è sacra e le istituzioni sono efficienti ed autorevoli. Dalle nostre parti si insegue lo scandalo come presupposto necessario per processare in anticipo il malcapitato, per cancellarlo definitivamente dalla vita civile e politica.

Figurarsi dopo trent'anni dai fatti evocati! Insomma prepariamoci ad una vagonata di fango e di illazioni ed alla colonna infame per alcuni.

*già parlamentare

mercoledì 27 marzo 2024

STEFANO LORENZETTO INTERVISTA ROBERTO D'AGOSTINO 

DIRETTORE DI "DAGOSPYA" 






Dago
di Stefano Lorenzetto
Oggi
Il Mercury, cinema a luci rosse, si trovava a 700 metri dalla basilica di San Pietro, in via Porta di Castello 44. «Proprietario dei muri era il Vaticano. Sul finire degli anni Ottanta, con l’arrivo delle videocassette, andò in crisi. Fu trasformato nel Muccassassina, il locale notturno più trasgressivo della Capitale: frocioni, drag queen, dark room, Cicciolina e la ventenne Vladimir Luxuria a fare da buttadentro», racconta Roberto D’Agostino. Lei che ne sa del patrimonio immobiliare ecclesiastico? «Ma scusi, se poi i preti lì ci hanno messo l’ufficio stampa del Giubileo! E oggi ospita il centro conferenze della Lumsa, la Libera Università Maria Santissima Assunta».
Mai fare domande di cui si conosce già la risposta: il fondatore di Dagospia sa tutto. La Città Eterna per lui non ha segreti, se non altro perché la osserva dal terrazzo di un doppio attico affacciato a 360 gradi su quella che ha sempre chiamato «Roma godona» e ora è diventata Roma Santa e Dannata, titolo (con rispettose iniziali maiuscole) del suo docufilm girato insieme a Marco Giusti, disponibile su RaiPlay. Tant’è che è stato chiamato a parlarne all’Istituto italiano di cultura a Londra, su invito del direttore Francesco Bongarrà, in occasione della mostra Legion life in the Roman army al British Museum, aperta fino al 23 giugno.

Più dannata che santa, si direbbe dal docufilm.
«Mi ha sempre stupito che il buon Dio si sia inventato una città santa mettendoci accanto il diavolo. Una Gerusalemme, il Vaticano, che ha intorno una Babele, Roma. Già nel 1834 per il poeta Giuseppe Gioachino Belli, impiegato pontificio, era “caput mundi” ma anche “la chiavica der monno”».
Capitale e fognatura del globo.
«Non che Milano sia la capitale morale. È che qui non ci siamo mai fatti intortare da filosofie, dogmi, ideologie. Il cattolicesimo è l’unica religione inclusiva: accoglie tutti e tutti assolve. Sa che Bene e Male sono due facce della stessa medaglia e quella medaglia siamo noi. Nessuno può scagliare il primo sampietrino. Negli anni Sessanta conobbi lo sceneggiatore Gore Vidal, snobissimo e antipaticissimo. Gli chiesi: com’è che voi gay venite tutti a Roma, non avete i festini a Hollywood? Mi rispose: “Perché qui si scopa”».
Molto esplicito.
«Al Palatino hanno rinvenuto un’epigrafe in greco che recita: “Ho imparato che a Roma la via diritta è un labirinto”. Conti solo se rimani unito ad altri uguali a te. Nel quartiere San Lorenzo, dove abitavo, vidi Pier Paolo Pasolini nella trattoria Pommidoro che flirtava con un quindicenne: era Ninetto Davoli. Oggi chiamerebbero i carabinieri».
A Roma c’è il potere. Lei è un uomo di potere?
«Iooo? Da solo non conti nulla. Il simbolo di Roma antica è il fascio, un mazzo di verghe con la scure. L’insegna del comando. Abramo Lincoln ci appoggia sopra le mani nel monumento di Washington. Conti solo se rimani unito ad altri uguali a te».
Traduca il concetto.
«La Dc erano dieci partiti legati come un fascio e ha governato per 40 anni. Nella Capitale si contano più di 30 circoli: nautici, golfistici, venatori, scacchistici, tennistici, ippici. Oh, saremo mica diventati tutti canottieri? Per essere ammessi in quei club esclusivi devi esibire un’unica patente: l’affidabilità. Nel 1977, quando mi proposi a Rai 2 per Odeon, il rotocalco televisivo, fui portato al cospetto di un alto dirigente di viale Mazzini, il quale chiese al curatore Brando Giordani: “È affidabile?”. “Sì”, rispose il giornalista. “Bene, allora buon lavoro, arrivederci”, concluse quello. Nient’altro».
Accipicchia, un vero talent scout.
«Più che circoli ristretti, diciamo che sono logge. Devi conoscerne le regole e rispettarle».
E quali sarebbero le regole del potere?
«Mai associarlo al sesso, mai ai soldi, mai al tradimento. Invece i parvenu scesi dal Nord entrano nella stanza dei bottoni e, ubriachi di hybris, credono di poter fare tutto quello che vogliono. Bettino Craxi flirtò con Moana Pozzi. Silvio Berlusconi organizzò i festini a Palazzo Grazioli. Matteo Renzi arrivò a Palazzo Chigi e nominò capo dipartimento degli Affari giuridici e legislativi Antonella Manzione, che era stata comandante dei vigili urbani di Firenze con lui sindaco. Tutt’e tre spazzati via».
La prima volta in cui vide il potere da vicino?
«Fu quando Francesco Cossiga si rivolse a me perché veniva ritenuto un folle e quindi nessun organo di stampa gli pubblicava i comunicati, neppure l’Adnkronos del suo amico Pippo Marra. Una mattina sono nel suo studio di via Quirino Visconti. Da Washington chiamano Kossiga, l’amerikano con la kappa: gli Usa hanno bisogno di far decollare dall’Italia i loro cacciabombardieri per la guerra nel Kosovo. L’ex presidente telefona al premier Romano Prodi, il quale da buon cristiano gli obietta che lui non uccide e nega il permesso. Allora Cossiga cerca Massimo D’Alema, che pur di prendere il posto di Prodi avrebbe sganciato una bomba atomica. “Vuoi diventare presidente del Consiglio?”, gli chiede. Conclusione: D’Alema è il primo comunista a diventare capo del governo italiano e gli americani possono far partire gli aerei dal Belpaese».





Come mai, nonostante le sue delazioni, la lasciano libero di campare? Il potere è tollerante?
«Scherza? Lei non ha idea di che cosa mi hanno fatto in 24 anni quelli che comandano: intimidazioni, querele, la Guardia di finanza che viene a sigillarmi la casa, la pubblicità che sparisce. Io non ho alle spalle John Elkann o Carlo De Benedetti».
Provi a identificarlo, questo maledetto potere.
«Tutti credono che sia incarnato da chi compare in tv e sui giornali. Sbagliato. Il potere è invisibile. Sta sotto, negli apparati, in quello che viene definito “deep State”, lo Stato profondo: Consulta, Corte dei conti, Ragioneria generale, servizi segreti, funzionari dei ministeri. Si fanno chiamare “servitori dello Stato”, non sono né di destra né di sinistra. I politici passano, loro restano. Rimasero persino dopo la caduta di Benito Mussolini».
Ma lei li tiene tutti sotto tiro. Come ci riesce?
«Faccio e ricevo telefonate. Chi si rivolge a me sa che non tradirò mai la sua fiducia. E uso un algoritmo inglese, Kilkaya. Mi svela che cosa piace ai lettori. Costa meno di un dipendente, 1.500 euro al mese: vede in tempo reale su che cosa cliccano».
Si maligna che il suo potere le derivi da un solido legame con i servizi segreti.
«Assurdo. Una delle sorprese della mia vita fu incontrarli. M’aspettavo qualcosa alla John le Carré o alla Graham Greene, agenti 007 divenuti romanzieri, invece mi venne da ridere. Fu tutt’altra cosa quando conobbi il capo stazione della Cia».
Parla di Robert Gorelick, mandato in Italia dalla Central intelligence agency dal 2003 al 2008?
«Lasciamo perdere. I servizi francesi e inglesi sì che sono fantastici. E quelli vaticani? Superlativi».
Lei sarebbe disponibile a fare la spia per davvero, pur di proteggere il Paese in cui vive?
«Scherza? Mi offende. Il sito si chiama così solo perché ho fuso il nomignolo Dago con Spia, la rubrica che tenevo sull’Espresso. Mi sento un po’ Tacito, un po’ portineria elettronica. Tagliare i panni addosso agli altri è forse l’ultima trincea del libero pensiero, sostenevano Fruttero e Lucentini. Il gossip è una risorsa strategica della politica. Dalla
Recherche di Marcel Proust a Monica Lewinsky, passando per il Watergate, è tutto un pettegolezzo».
Il cerimoniale della Repubblica suddivide le cariche in 7 categorie e 121 classi. Dopo il capo dello Stato, vengono cardinali, presidente del Senato, presidente della Camera, presidente del Consiglio dei ministri. Perché un porporato conta più del Parlamento e del governo?
«Non lo sapevo. Molti sottovalutano il potere di Santa Madre Chiesa. Lo scoprii nel 1999, quando mi preparavo a lanciare Dagospie fui ricevuto in Vaticano da un tizio che costruiva i siti per tutte le diocesi del mondo. Le pare che una struttura così, salda da 2 mila anni, si faccia scalfire dalle chiacchiere dei giornali? Io sono fortunato, ho sempre avuto fede. Un prete pedofilo non mi turba. A Roma abbiamo avuto papa Borgia, si figuri».
Quanto conta Sergio Mattarella?
«Tantissimo. Il potere invisibile coltiva la virtù del silenzio. Infatti l’ho ribattezzato la Mummia sicula, anche se al Colle dispiace. Lei ha mai letto un’intervista con Enrico Cuccia? Se il capo di Mediobanca avesse parlato, sarebbe stata la sua fine».
Papa Francesco rilascia un’intervista al mese.
«Fa i dispetti a Paolo Ruffini e Andrea Tornielli, i capi della comunicazione vaticana. Ma è l’unico al mondo che ha avuto il coraggio di dire che l’Ucraina, senza aiuti, soccomberà nel giro di un mese, quindi non le resta che trattare con la Russia».
Sarà lo Spirito Santo o il potere a scegliere il prossimo pontefice?
«Io spero che venga eletto Matteo Maria Zuppi».
Nel 2010 riteneva che gli italiani più potenti fossero Gianni Agnelli e Maurizio Costanzo. Oggi?
«Siamo indebitati fino al collo. Il potere ce l’ha la nostra creditrice, l’Unione europea. E scopriamo che l’Avvocato è stato il più grande evasore fiscale di questo Paese, ecco che cosa resta del suo mito».
Come mai non prende sul serio Giorgia Meloni?
«Draghi di qua, Draghi di là... All’inizio le avevo dato fiducia: l’ho chiamata la Draghetta. Quelli sopra di lei speravano che diventasse una democristiana, che creasse un vero partito conservatore. Invece è stata colta dalla sindrome di Carlito’s way, ha presente? Al Pacino esce dal carcere, vuol cambiare vita, ma il passato lo trapassa: arrivano le cambiali da pagare e resta incastrato. Meloni s’è sentita dire dallo zoccolo duro del Msi: “Ahò, siamo stati per mezzo secolo nelle fogne, ora ci prendiamo ciò che è nostro”. E lei, che non si fida di nessuno, ha trovato nei vecchi sodali della sezione Colle Oppio la sua sicurezza. È diventata la Ducetta. Ha scambiato l’autorevolezza con l’autoritarismo».




«Pipparoli», «smanaccioni», «twittaroli»: maltratta gli internauti con nomignoli urticanti.
«Ma no, è che allungano la mano perché non riescono ad allungare altro. Che cos’è in fin dei conti l’erotismo? Un racconto per chi legge, vedi Le mille e una notte. E il Decameron del Boccaccio».
Da 1 a 10, quanto potere ha Instagram?
«Dieci».
E TikTok?
«Non lo conosco, lo vedo poco. Tutti i social, da Facebook a X, appartengono alla tragedia dell’essere umano. Siamo d’accordo sul fatto che Aristotele e Platone erano un po’ più acculturati di Matteo Salvini? Ebbene, perché i Greci crearono la filosofia, il teatro, le arti, l’Olimpo, Zeus, Venere, cioè un mondo parallelo? E noi perché abbiamo inventato il cinema e la tv? Perché quando ci guardiamo allo specchio non ci piace ciò che appare, vediamo l’insoddisfazione più totale. Internet appaga le attese e le pretese dell’uomo. Se lei deve scegliere una sua foto, selezionerà quella in cui ha l’aspetto più seducente. Siamo tutti influencer».
Vanità delle vanità. Gran brutta malattia.
«La disperazione che vedo in giro nasce dal fatto che non esistono più né idee né ideali né ideologie: abbiamo solo noi stessi. Il corpo è il display per mostrare agli altri non ciò che siamo, ma ciò che vorremmo essere. Sparita la realtà, siamo diventati una fiction. Con questa ferraglia che ho addosso io comunico al mondo che avrei voluto essere Keith Richards, il chitarrista dei Rolling Stones. Purtroppo non avevo lo stesso talento».
Stefano Lorenzetto